Se si esclude l’ultimo brusco calo della scorsa settimana, quando nel giro di poche ore il Brent ha perso circa 5 dollari al barile, il prezzo del petrolio da inizio anno è risultato piuttosto stabile, muovendosi in un corridoio compreso tra gli 80 e i 90 dollari, con oscillazioni perlopiù emotive, influenzate a volte dagli sviluppi della crisi in Medio Oriente, a volte dalla guerra in Ucraina. Non è facile prevedere l’andamento del cosiddetto “premio di guerra” sul prezzo del petrolio, frutto prevalentemente delle difficoltà a individuare tratte mondiali sicure per le petroliere, da un lato, di rimpiazzare greggi e prodotti russi, dall’altro. Però, a prescindere dagli sviluppi geopolitici, la prossima estate le quotazioni potrebbero virare verso l’alto per fattori ulteriori.

Di recente sono emerse aspettative su un allentamento dei tetti OpecPlus, e quindi una maggiore offerta di greggio sul mercato, che potrebbe essere annunciato il 1° giugno, quando l’alleanza dei produttori guidata da Russia e Arabia Saudita si riunirà nuovamente per valutare le condizioni di mercato. Inoltre, ha effetti ribassisti sul barile la politica monetaria prudente della Fed, che lo scorso 2 maggio ha deciso di lasciare i tassi di interesse invariati, cioè sui massimi degli ultimi 20 anni, deludendo le aspettative di chi aveva scommesso su un taglio del costo del denaro ora che l’inflazione Usa è scesa su livelli accettabili. Tassi di interesse interbancari alti significano dollaro forte, che tende a deprimere le quotazioni del petrolio, esportato in cambio di biglietti verdi. Tutti elementi che insieme contrastano la spinta rialzista provocata dalla decisione della Russia di interrompere le esportazioni di benzine almeno fino a fine agosto per soddisfare il consumo interno.

Eppure non bisogna dimenticare che sullo sfondo di questa complessa situazione, restano nodi irrisolti sulle prospettive future, che riguardano prevalentemente come affrontare gli investimenti upstream. Il dibattito annoso è sempre lo stesso: da un lato c’è l’Occidente, in particolare l’Agenzia Internazionale per l’energia di Parigi, che nega la necessità di investire per cercare nuovi giacimenti petroliferi da mettere in produzione, in virtù di una transizione ecologica sempre più avanzata. Dall’altro, ci sono i paesi produttori, riuniti sotto l’egida dell’OpecPlus, che invece sostengono la necessità di massicci investimenti upstream (possibilmente a casa loro) per evitare che l’offerta di petrolio non sia in grado di soddisfare la crescente domanda.

Su un punto sono tutti d’accordo. Attualmente la domanda mondiale di petrolio cresce e continuerà a crescere nei prossimi anni. Secondo le ultime stime Aie disponibili, quest’anno la domanda di petrolio dovrebbe crescere di 1,2 a 103,17 milioni barili giorno; il prossimo di 1,1 a 104,31 mln b/g. Previsioni simili arrivano da oltreoceano, con l’Eia Usa che prevede una domanda petrolifera mondiale di 102,9 milioni barili giorno quest’anno, che salirà a 104,3 mln il prossimo. Si discosta di poco l’Opec (102,2 mln b/g per il 2024; 104,4 mln b/g per il 2025). Sul lato dell’offerta invece le incognite si moltiplicano.

A dispetto di recenti e vivaci appelli per la sicurezza energetica globale di alcuni senatori repubblicani Usa, guidati da Cathy McMorris Rodgers, l’Aie non crede in un problema di approvvigionamento di petrolio. “I volumi aggiuntivi provenienti da Stati Uniti, Brasile, Guyana e Canada da soli potrebbero avvicinarsi a soddisfare la crescita della domanda mondiale di petrolio per quest'anno e il prossimo – si legge nell’ultimo Oil Market report -. Questi quattro paesi sono destinati a produrre ancora una volta a livelli record, aggiungendo complessivamente 1,2 mb/g nel 2024 e 1 mb/g nel 2025”. In realtà, non sembra temere un problema di approvvigionamento neanche l’Energy Information Administration Usa (Eia), che nell’ultimo rapporto mensile piuttosto osserva come l’OpecPlus stia accumulando scorte e capacità di riserva (“spare capacity”) per tenere in essere gli attuali tetti produttivi. L’Eia calcola che, nonostante l’OpecPlus abbia ripetutamente limitato la propria offerta di petrolio, la produzione globale ha continuato a crescere di pari passo alla domanda: è aumentata di 1,8 mln b/g nel 2023 e si prevede che aumenterà di altri 850.000 b/g quest’anno prima di crescere di altri 2 mln b/g nel 2025, principalmente grazie ai paesi non-OpecPlus, dove evidentemente gli investimenti upstream continuano a farsi.

Di qui gli strali del segretario generale dell’Opec, Haitham Al Ghais, che la scorsa settimana ha scritto un editoriale per il Middle East Economic Survey, scagliandosi contro chi sostiene che la domanda di petrolio possa diminuire nel prossimo futuro grazie allo sviluppo sulle fonti rinnovabili e alla penetrazione di auto elettriche. Citando un rapporto apparso sull’Economist, Al Ghais ha stigmatizzato il rischio di alimentare “caos energetico”. “Sebbene l'obiettivo principale dell'accordo di Parigi sul cambiamento climatico sia ridurre le emissioni – non scegliere le fonti energetiche – sembra che questo obiettivo sia stato dimenticato (…), sostituito da rigide narrazioni per ridurre la domanda di idrocarburi senza pensare agli effetti sulla sicurezza energetica, sullo sviluppo socioeconomico o sulla riduzione della povertà energetica”.

Di fronte a posizioni così nettamente di contrasto tra Occidente e paesi produttori, sembra assai improbabile che il prossimo primo giugno l’OpecPlus intervenga per aumentare la produzione mondiale di petrolio e c’è già chi stima per questo un supply deficit di circa 2 milioni di barili giorno nel mese di agosto (la banca inglese Standard Chertered). Intanto, in quella che sembra una risposta alla decisione della Fed di mantenere stabili i tassi di interesse, Saudi Aramco ha aumentato i prezzi ufficiali di vendita (official selling price) per tutti i tipi di greggio esportati in Asia (consegna a giugno), dando credito a chi prevede che la domanda di petrolio la prossima estate sarà più forte di quella attuale.