Nel complesso scenario mediorientale, le tensioni fra Israele e Iran costituiscono un tratto strutturale sin dagli anni della rivoluzione che, nel 1979, ha portato alla caduta della monarchia Pahlavi e alla nascita della Repubblica islamica. Gli attacchi contro il ‘Piccolo Satana’ sono un topos ricorrente nella propaganda di Teheran. Fra i due paesi non sono mancati nemmeno gli scontri armati, sia (più spesso) ‘per procura’, sia (talora) diretti. Dalla metà degli anni Duemila, una politica estera più assertiva e il rilancio delle ambizioni nucleari iraniane hanno condotto a un ulteriore deterioramento dei rapporti. Varie fonti ipotizzano, fra l’altro, un coinvolgimento dei servizi di sicurezza israeliani nell’attacco informatico che, nel 2010, ha messo fuori uso buona parte delle centrifughe dell’impianto di arricchimento di Natanz, una delle chiavi di volta del programma nucleare di Teheran.

Gli attacchi del 7 ottobre 2024 e la successiva risposta militare israeliana si collocano sullo sfondo di queste tensioni, contribuendo in modo significativo ad alimentarle. La Repubblica islamica è uno dei tradizionali sponsor di Hamas, che ha sostenuto, in passato, con massicce forniture di fondi, armi e addestramento. Nonostante le differenze ideologiche, l’ostilità nei confronti di Gerusalemme e degli attuali equilibri regionali rappresenta un legame importante fra i due attori. D’altra parte, sin dall’inizio della crisi, pur congratulandosi per il successo degli attacchi, i vertici di Teheran sono apparsi attenti a evitare un possibile allargamento dell’area di crisi, prendendo subito le distanze dall’azione di Hamas e portando avanti, insieme ai loro alleati regionali (il c.d. ‘Asse della resistenza’) una linea d’azione sostanzialmente improntata al principio della ‘pazienza strategica’.

In questo senso, la posizione iraniana ha mostrato subito più di un punto di convergenza con quella dell’amministrazione statunitense. Evitare che la risposta militare israeliana innescasse un’escalation dalle conseguenze difficilmente controllabili ha rappresentato una delle priorità dell’azione di Washington nei primi giorni della ‘campagna di Gaza’; una priorità che le scelte di Teheran hanno in qualche modo sostenuto, anche se le ragioni della ‘pazienza strategica’ dalla Repubblica islamica hanno forse più a che fare con la sua debolezza interna che con l’effettiva moderazione della sua leadership. D’altra parte, garantire la sopravvivenza della Repubblica è uno dei principi di fondo che ispira la politica estera e di sicurezza iraniana, un principio che ha trovato applicazione in occasione di altre crisi e che la classe dirigente del paese condivide al di là di quelle che possono essere le sue divisioni.

Questa logica è emersa anche dopo l’attacco del 1° aprile contro il consolato di Damasco e la morte del generale Zahedi, figura di primo piano del Corpo dei guardiani della rivoluzione. Nonostante i toni infuocati delle dichiarazioni e il massiccio spiegamento di forze, la risposta iraniana del 13 aprile è stata in larga misura simbolica, così come in larga misura simbolico è stato il successivo attacco israeliano contro alcune installazioni militari nella regione di Isfahan. Il fatto che, dopo quest’ultimo attacco, entrambe le parti abbiano cercato di ridimensionarne la portata appare indicativo di come sia a Gerusalemme, sia a Teheran la volontà prevalente rimanga quella di evitare che la situazione vada fuori controllo: un obiettivo che la Casa Bianca non può non condividere, soprattutto di fronte al rischio di trovarsi risucchiata in un conflitto nel quale Israele dovesse essere coinvolta.

L’attuale allentamento della tensione non può, quindi, essere accolto da Washington che con favore, data anche la delicata situazione interna, con l’approssimarsi del voto di novembre e il rafforzarsi del sentimento filopalestinese in una parte dell’opinione pubblica. Gli interrogativi maggiori riguardano, da una parte quanto l’attuale situazione potrà durare, dall’altra se la scelta ‘moderata’ di Teheran servirà in qualche modo a rilanciare un dialogo con gli USA, che, nonostante l’arrivo di Joe Biden alla presidenza e la posizione da questi assunta in campagna elettorale, sembra essere entrato in una fase di stallo. Su entrambi questi punti, le scelte fatte dal governo israeliano avranno una parte importante; scelte che – a loro volta – non potranno non tenere conto della montante pressione interna e interazionale per porre fine a un’azione militare ancora priva di una vera exit strategy.

È un intreccio complesso. Se, da un lato, Israele resta in principale alleato degli Stati Uniti nella regione e continua - nonostante tutto - a godere di un ampio favore bipartisan nell’opinione pubblica, dall’altro l’Iran è comunque un attore imprescindibile per la stabilità del Medio Oriente. Il fatto che, fino a oggi, entrambi i paesi abbiano dato prova di una moderazione per molti inattesa ha aiutato Washington a mantenersi in equilibrio fra due tensioni contrastanti. Se e quanto questo stato di cose potrà durare è aperto a ogni speculazione. Tuttavia, non c’è dubbio che gli ultimi avvenimenti abbiano contribuito ad alimentare l’irritazione della Casa Bianca nei confronti del governo di Benjamin Netanyahu, con cui i rapporti non sono mai stati davvero facili e che, negli ultimi mesi, sembra essere diventato sempre più sordo alle ripetute sollecitazioni del suo alleato di Oltreatlantico.

Gianluca Pastori insegna Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano