Il 19 aprile, Israele ha risposto alla rappresaglia iraniana scatenata alcuni giorni prima con un attacco che ha colpito per la prima volta direttamente il suolo della Repubblica Islamica. Un’azione che nasceva come esigenza e risposta inequivocabile di Tel Aviv all’enorme attacco aereo subito con droni e missili sui propri cieli – seppur con danni limitati – lo scorso 13 aprile.

Ad oggi, a causa della penuria di informazioni a disposizione, permangono molti dubbi circa l’effettività dell’azione condotta da Israele in Iran. Quel che è dato sapere riguarda i target raggiunti, come ad esempio le infrastrutture militari nella provincia di Isfahan, che ospita anche importanti siti (come Natanz) associati al programma nucleare del Paese. Quel che però è certo che l’attacco israeliano rappresenta un ennesimo livello nello scontro sempre più aperto tra Tel Aviv e Teheran, che da oltre un decennio imprigiona tutto il Medio Oriente. Un confronto teso, mai diretto e molto incerto, che si nutre delle criticità regionali, che, a cominciare dal conflitto di Gaza, rappresentano degli importanti acceleratori sulla stabilità e l’insicurezza generalizzata che avvolge il quadrante allargato.

In questo preciso orizzonte politico e strategico, gli attacchi del 13 e 19 aprile rappresentano, quindi, un’evoluzione nella contesa e nella concezione di confronto diretto. Per il gabinetto di guerra israeliano il tema all’ordine del giorno non è mai stato relativo alla risposta che Israele avrebbe dovuto perseguire, in quanto scontata e inevitabile, bensì concentrata sul come e quando. Le istituzioni israeliane hanno spiegato sin dalle prime ore successive l’attacco iraniano che quell’evento era un fatto senza precedenti e in quanto tale non poteva restare impunito, accrescendo contestualmente i timori di una conflittualità aperta in tutta la regione. Sebbene, ad oggi, i rischi di un conflitto diretto tra Israele e Iran siano stati per lo più congelati dopo lo scambio di rappresaglie reciproche, ancora molti dubbi e riflessioni continuano a convergere sul post-eventi e nella fattispecie su quali possano essere le possibili mosse del gabinetto di guerra israeliano. Considerazioni che devono essere fatte non solo e soltanto in relazione all’attacco all’Iran, ma anche alle minacce alla sua sicurezza nazionale, così come alle tensioni interne e al contesto mai domo di Gaza.

Contrariamente a quanto si possa immaginare, l’esecutivo israeliano non è un monolite e come qualsiasi soggetto politico è portatore di visioni e prospettive differenti. Ne abbiamo avuto una misura nel conflitto contro Hamas, così come nelle posizioni pubbliche assunte – anche se in misura minore – nei confronti delle tensioni crescenti nei confronti di Hezbollah. In entrambi i casi, a spaccare e dividere politica, istituzioni, militari e società israeliane erano diversi aspetti, dalle ripercussioni reputazionali sul piano internazionale agli impatti identitari che hanno accresciuto le diverse fratture interne al Paese.

A differenza, però, dei casi di Gaza e del Libano, il dossier iraniano è vissuto come un elemento unificante nella percezione di insicurezza israeliana, essendo la Repubblica islamica avvertita come una minaccia esistenziale per il Paese mediorientale. Non a caso, all’interno del gabinetto di guerra convivono sensibilità diverse che manifestano una pluralità di posizioni anche rispetto al tema in questione. Vi sono, ad esempio, alcune personalità che nel caso di Gaza sono state percepite o descritte dai media locali e internazionali talune volte come “colombe” o “moderate”, ma che, invece, sul tema iraniano hanno assunto posizioni più definite (e talora assertive) rispetto a quelle del Premier Benjamin Netanyahu o del Ministro della Difesa Yoav Gallant. Ad esempio, Benny Gantz e Gadi Eizenkot, rispettivamente ex Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa Israeliane e Ministri nell’attuale esecutivo, hanno una propria storia personale molto rilevante e avrebbero manifestano l’intenzione di perseguire l’Iran attraverso una risposta durissima già nell’immediatezza degli eventi notturni del 13 aprile, mentre i droni iraniani erano ancora in volo. Viceversa, e quasi per paradosso, Netanyahu, ma anche Gallant, avrebbero mostrato una moderazione apparente e/o di facciata, che rispondeva a esigenze politiche personali (ad esempio la necessità del primo nel non vedersi superato dai due leader delle opposizioni sul delicato tema della sicurezza, o l’esigenza del secondo di mantenere un certo dialogo stretto con le istituzioni militari).

Se Netanyahu e Gantz, espressioni di storie politico-militari diverse, sono stati nei fatti determinati nell’ordinare un attacco, essi si sono invece mostrati divisi sulle modalità della risposta da approntare. Sfumature e visioni solo parzialmente divergenti, in quanto un concetto trasversalmente accettato e condiviso da tutto lo spettro politico e militare israeliano consisteva nel dover dare una risposta adeguata pena una dimostrazione di debolezza, che avrebbe garantito impunità all’Iran. Il punto, quindi, non si è posto sulla risposta da adottare, ma sul come perseguirla per mostrare deterrenza senza determinare una deflagrazione del già precario scenario regionale e mettere ancor più a repentaglio la sicurezza nazionale israeliana già provata dalla guerra di Gaza e dalle tensioni mai risolte in Cisgiordania, vero vulnus di fragilità per Tel Aviv e le sue politiche.

Ecco perché oggi più che mai è importante comprendere la psicologia, l’interesse politico e le sfumature di posizioni dei diversi attori in campo nel dilemma strategico israeliano al fine di meglio comprendere le complessità che lo scenario securitario nazionale presenta in sede decisionale.