Periodicamente, l’intensificarsi dei conflitti e degli scontri armati in Medio Oriente solleva lo spettro di una chiusura al traffico marittimo dello stretto di Hormuz, attraverso il quale si accede al Golfo (Persico o Arabo, a seconda dei punti di vista) dall’Oceano Indiano. L’impatto di una chiusura completa e prolungata sugli equilibri energetici globali sarebbe devastante: attraverso Hormuz passano attualmente tutte le esportazioni di petrolio di Iraq, Kuwait, Iran, e Qatar, e la maggior parte di quelle di Arabia Saudita (che ha l’opzione di caricare una parte del suo petrolio dal Mar Rosso) e Abu Dhabi (che ha una opzione parziale di caricare a Fujairah, direttamente sull’Oceano Indiano. Inoltre attraverso lo stretto passano necessariamente anche tutte le metaniere che portano il GNL esportato dal Qatar e da Abu Dhabi. Ma è credibile uno scenario tanto catastrofico?

Ci sono buoni motivi che spiegano perché l’Iran ha scelto di ostacolare selettivamente il passaggio attraverso Bab el Mandeb, lo stretto che collega il Mar Rosso all’Oceano Indiano, piuttosto che attraverso Hormuz. La chiusura di Bab el Mandeb provoca la necessità di riorientare il traffico petrolifero e metanifero, ma non riduce l’offerta globale di petrolio o GNL. L’allungamento del viaggio con la circumnavigazione dell’Africa tocca soltanto gli importatori europei, lasciando indenni i paesi asiatici. E si traduce in un aumento relativamente limitato dei costi per i consumatori finali. In aggiunta, gli attacchi da parte delle milizie Houthi hanno colpito soltanto alcune navi, generalmente con un qualche collegamento ad Israele; e non soltanto in prossimità dello stretto, ma anche a notevole distanza. In altre parole, non c’è stata una vera e propria “chiusura” di Bab el Mandeb.

Questo è importante, perché se ci fosse un tentativo di chiusura, quale è stato ipotizzato in passato per Hormuz (per esempio attraverso la disseminazione di mine nel punto in cui lo stretto è più angusto) la reazione dei paesi esportatori ed importatori sarebbe immediata e sicuramente vincente. In altre parole, imporre una chiusura completa e prolungata dello stretto sarebbe probabilmente impossibile, perché i paesi occidentali (ma forse anche India e Cina) reagirebbero.

È dunque in ogni caso probabile che l’Iran, se volesse ostacolare le esportazioni dei paesi arabi del Golfo, faccia ricorso alla stessa tattica utilizzata per Bab el Mandeb, ovvero organizzi degli attacchi non concentrati nello stretto di Hormuz ma dispersi su di una molto più vasta area dell’Oceano Indiano o all’interno del Golfo stesso. Negli anni ’80, durante la guerra tra Iraq ed Iran, ambedue i contendenti attaccarono in varie occasioni petroliere che trasportavano greggio esportato dagli avversari, ma complessivamente senza gravi conseguenze per l’offerta globale di petrolio. Una completa chiusura dello stretto danneggerebbe anche l’Iran, e non permetterebbe di discriminare carichi diretti verso paesi amici da quelli diretti da paesi che si intendono “punire”.

Gli equilibri sono cambiati. Nel 1973, all’epoca della guerra dello Yom Kippur, i paesi arabi decretarono l’embargo delle esportazioni verso gli Stati Uniti, il Regno Unito, il Canada, il Giappone e i Paesi Bassi. Oggi gli Stati Uniti e il Canada non solo non hanno necessità di importare petrolio dal Golfo, ma sono in grado di soccorrere i paesi europei o asiatici che venissero nuovamente colpiti. L’Iran non ha certamente interesse a tagliare le sue esportazioni verso la Cina o verso l’India e altri paesi asiatici.

In conclusione, non credo che lo scenario di una chiusura totale o parziale dello stretto di Hormuz sia credibile. Ciò non toglie che sia possibile un progressivo allargamento del conflitto ad altri paesi della regione, i quali peraltro sono tutti già impelagati in guerre civili più o meno acute ma comunque non risolte: Libano, Siria, Iraq, Bahrain, Yemen, Sudan, Libia… Siamo abituati a considerare questi conflitti individualmente, come se ciascuno fosse indipendente dagli altri, mentre in realtà le reciproche interferenze e condizionamenti sono profondi. Sarebbe in definitiva più corretto parlare di una guerra civile araba che tocca l’intera regione e nella quale tanto Israele che l’Iran sono profondamente coinvolti, così come molteplici attori extra-regionali.

Non si può certo escludere che la guerra civile araba finisca per scoppiare simultaneamente in tutta la regione, e coinvolgere anche i principali produttori del Golfo. Gli attori extraregionali potrebbero allora decidere di intervenire, ma come e con quali obiettivi non è affatto chiaro. Dopo le esperienze del recente passato c’è notevole riluttanza a lasciarsi invischiare nelle sabbie mobili della regione.

Più probabile che vengano prese iniziative per accelerare la marginalizzazione della regione, sviluppando la produzione in altre parti del mondo, in particolare nelle Americhe e in Africa. In ogni caso, l’esperienza delle precedenti guerre regionali (in particolare quella tra Iraq e Iran, durata otto anni) dimostra che le infrastrutture petrolifere sono meno vulnerabili di quanto solitamente si pensi, e la produzione potrebbe essere ridotta, ma difficilmente azzerata.