“Il mondo appartiene a coloro i quali possiedono la maggior quantità di energia”: questa la citazione di Alexis de Tocqueville nel suo volume “Democracy in America” scritto nel 1835. Parole incredibilmente attuali e che riassumono alla perfezione il ruolo strategico delle risorse energetiche.
Se il ventesimo secolo può essere definito il secolo del petrolio, quello corrente sarà indicato come il secolo del gas. Pertanto, occorre focalizzare l’attenzione sulle dinamiche in essere e su quelle che con buone probabilità si protrarranno anche nel prossimo futuro. Vi è una diffusa presa di coscienza, ad esempio, del ruolo chiave del GPL il cui contributo alla riduzione delle emissioni di gas climalteranti è ormai un dato certo e pressoché universalmente riconosciuto. Sussistono, però, ancora diversi ostacoli al suo pieno accoglimento ed è quindi necessario indagarne le cause principali. Tre, almeno, sono le ragioni legate alla difficoltà di un pieno riconoscimento di questo settore e quindi della sua espansione.
1) La prima ha a che fare con l’equità: la transizione energetica tende a porre la più parte dell’onere sui Paesi e sui gruppi di persone meno resilienti, con la conseguente generazione di resistenze. Per fare un esempio, guardiamo alle differenze tra l’impegno dei paesi avanzati rispetto a quello dei paesi in via di sviluppo. Le preoccupazioni delle economie avanzate di fronte allo scarso impegno nella riduzione delle emissioni da parte dei paesi emergenti non tiene conto delle disuguaglianze dei punti di partenza dei due gruppi. I paesi in via di sviluppo, infatti, ritengono profondamente ingiusto che si chieda a chi ha inciso in maniera limitata sulla produzione di CO2 di avere gli stessi limiti emissivi di quelli imposti ai paesi sviluppati. Sappiamo che questa è una delle questioni fondamentali che sarà anche al centro delle discussioni della prossima COP28 a Dubai. Occorre dunque trovare risposte adeguate alle questioni sollevate dal cosiddetto “Sud Globale” - di cui fanno parte circa 23-24 paesi – se realmente si vuole dare avvio ad un processo di sviluppo sostenibile.
2) La seconda ragione riguarda il problema della scelta del percorso di green economy che si intende avviare. È questo un tipico problema di analisi di “traversa”. L’idea base della “teoria della traversa” - sviluppata dal grande economista di Oxford John Hicks negli anni ’70 e premio Nobel - è che quando si pone mano ad un processo di transizione è pericoloso prendere in considerazione il solo punto di arrivo dello stesso, cioè l’equilibrio finale. Infatti, se i costi della transizione – i costi cioè per passare dal vecchio al nuovo equilibrio– eccedessero una certa soglia, potrebbe accadere che le forze sociali che subiscono i costi della traversa si organizzerebbero per contrastarne l’avvio, pur essendo consapevoli che il punto d’arrivo sarebbe da tutti desiderato. Purtroppo, non esiste (ancora) un modello di traversa applicabile alla transizione energetica ed è questo ciò che rallenta la presa di decisioni da parte dei policy-makers. Ad esempio, è opportuno attuare subito una strategia accelerata oppure una strategia un poco ritardata? Non disponiamo di una base rigorosamente scientifica per dare una risposta, non meramente di comodo. Il lavoro recente di due importanti economisti – l’americano Joseph Stiglitz e l’inglese Nicholas Stern – avanza una proposta di grande interesse in tal senso. (Cfr. “The Social Cost of Carbon, Risk, Distribution. An Alternative approach”, NBER, Feb. 2021).
Un esempio concreto. Si pensi che le dieci principali banche europee continuano a finanziare progetti che comportano emissioni di gas climalteranti per un valore stimato in 530 miliardi di euro. Se si attuasse un percorso rapido di decarbonizzazione, questi asset perderebbero il loro valore e queste banche rischierebbero il fallimento, con tutte le implicazioni del caso. C’è stata la proposta della Banca dei Regolamenti Internazionali di creare una bad bank che prenda in carico questi asset “tossici” ma non c’è ancora accordo politico tra i paesi coinvolti.
3) La terza ragione riguarda l’aspetto istituzionale. Nel mondo non esiste ancora un’organizzazione internazionale, dotata dei poteri necessari, anche di sanzionamento, che si occupi di energia e ambiente. Negli incontri come le Conferenze delle Parti (COP) vengono firmati molti accordi che spesso, poi, non vengono ratificati dai paesi firmatari, come è stato il caso con il celebre accordo di Parigi del 2015. Oggi la transizione energetica pone problemi che non possono essere risolti solo limitandosi ad affermazioni di principio. Pensiamo alla Norvegia con il petrolio, o anche ai paesi del Mediterraneo orientale – Israele, Egitto, Cipro, Grecia, Turchia, Libano, Siria – che hanno affermato il loro diritto di sovranità sulle ingenti riserve di gas di recente trovate in quello specchio d’acqua.
Per concludere, un’associazione come Assogasliquidi-Federchimica dovrebbe battersi perché in sede ONU si arrivi a dare vita ad una Agenzia Internazionale ad hoc. In secondo luogo, è bene tenere presente che non basta intrattenere relazioni di buon vicinato con i governi e le istituzioni politiche. Bisogna anche aprire tavoli di confronto e di dibattito che le tante organizzazioni della società civile, dalle quali ultimamente dipende la generazione del consenso. (Si veda al riguardo il documento del FMI, “Are Climate Change Policies Politically Costly?”, del giugno 2021). Mai si dimentichi, infatti, che alla base delle grandi difficoltà di avere ragione della crisi energetica in atto, sta l’incapacità, finora manifestata, di tenere in mutuo equilibrio tutte e tre le dimensioni della sostenibilità: ambientale, sociale, economica. E perché questo? La risposta è immediata: si continua a tenere in disparte e a non coinvolgere la società civile.
È bensì vero che le difficoltà ci sono e sono forti, ma non bisogna esagerarne la portata, perché anche l’acqua del mare ha bisogno degli scogli per alzarsi più in alto!