Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) ha inviato a fine giugno l’executive summary della nuova proposta di Piano nazionale integrato energia e clima (PNIEC) alla Commissione europea. Negli stessi giorni ha iniziato a circolare una bozza del Piano, mentre il MASE sta producendo il documento finale. Il PNIEC verrà poi rivisto e aggiornato nel giro di un anno, sulla base delle osservazioni ricevute dalla Commissione stessa e dai portatori di interesse nazionali.
A tale proposito sarebbe buona cosa se si potesse avviare un osservatorio con le parti per rafforzare il documento e individuare strade utili a tradurre in realtà gli obiettivi sfidanti che lo caratterizzano. La necessità di scrivere in fretta il Piano, unita a un’altrettanto rapida consultazione, senza dubbio dall’efficacia limitata rispetto a una discussione bozza alla mano, è, infatti, uno dei limiti principali di questa prima stesura, che peraltro appare piuttosto organica e in linea con le richieste comunitarie, anche se un po’ debole nella parte di descrizione delle politiche di attuazione e supporto.
Per il resto, produrre un commento articolato su una bozza non si sa quanto vicina a quella definitiva sarebbe incauto, da qui perciò solo alcune considerazioni generali su quanto letto e sugli obiettivi. A tale proposito prenderò spunto anche da quanto emerso dall’incontro che la FIRE ha tenuto la scorsa settimana per i propri associati con la partecipazione di DG ENER, MASE ed RSE. In tale occasione è stato, infatti, possibile andare più in dettaglio sui numeri e su alcuni aspetti fondanti del Piano.
Partendo dai target su cui il PNIEC si fonda, possiamo dire che se gli obiettivi sulle rinnovabili sono genericamente superiori ai vincoli europei (quota rinnovabili su consumi finali lordi al 40,5% contro il 38,4%-39,0% previsto dalle regole europee), altrettanto non si può invece dire né per l’efficienza energetica (per la quale ci si ferma ai 100 Mtep di consumi finali, contro i 92-94 Mtep previsti, nonostante il rispetto dell’obiettivo vincolante sui risparmi energetici annui), né per le emissioni fuori emission trading (ossia quelle che rientrano nella cosiddetta ESR-effort sharing regulation, che riguarda in particolare edifici e trasporti, dove si prevedono 35,3-37,1% di riduzione GHG contro il 43,7% previsto). Dunque, se c’è una direzione prioritaria su cui lavorare per migliorare il Piano lato obiettivi, è quella di ripensare efficienza energetica ed emissioni fuori ETS per vedere se si può fare di più (cosa che produrrebbe benefici diretti anche sulla dimensione delle rinnovabili e della sicurezza energetica). Questo, ovviamente, non significa solo cambiare i numeri nelle tabelle, ma trovare una serie di soluzioni che consentano di fare confluire gli scenari su numeri migliori.
I due obiettivi deficitari sono correlati, in quanto è evidente che con più efficienza energetica nei settori edifici e trasporti si ottiene una riduzione di gas serra a valere sull’ESR, anche se vi sono misure in grado di agire in modo diverso sulle due dimensioni, come ad esempio l’utilizzo delle biomasse per il riscaldamento (che migliorano le emissioni, ma possono avere effetti anche negativi sui consumi finali a seconda delle soluzioni sostituite). La ragione delle difficoltà in questi ambiti è in buona parte legata all’evoluzione in aumento dei consumi negli ultimi anni per terziario e trasporti rispetto alle previsioni passate. Un aspetto che mette bene in evidenza che la decarbonizzazione dell’economia non si può ottenere con il semplice ricorso a misure di ottimizzazione e con l’installazione delle soluzioni più efficienti, ma occorre puntare sul cambiamento dello status quo, sia nell’ambito degli stili di vita, sia per quanto riguarda prodotti, servizi e modelli di business. Non è un caso se negli scenari del rapporto Net zero by 2050 dell’Agenzia internazionale dell’energia il peso di questo contributo sia rilevante e crescente.
Questa parte meriterebbe dunque uno spazio adeguato nel Piano, con politiche informative – basate su esperienze positive – e regolatorie volte a promuovere il cambiamento nelle imprese, negli enti e nelle famiglie. Un esempio banale, ma credo significativo: abbiamo l’urgenza climatica e la maggior parte degli enti e delle imprese ha mantenuto un dress code d’altri tempi, per gli uomini in particolare, con il risultato di dovere tenere le temperature negli uffici, nei mezzi di trasporto, nei locali e negli alberghi molto più basse di quanto necessario con un abbigliamento consono alla stagione. Cambiare è semplice e si può fare da un giorno all’altro nelle singole organizzazioni. Anche lo smart working può consentirci di migliorare sul piano delle emissioni, con effetti rilevanti anche sociali. Le imprese, poi, devono cominciare a definire la proposta di valore dei loro prodotti e servizi mettendo la riduzione delle emissioni, dell’energia e delle altre risorse sul ciclo di vita come parte integrante del progetto. C’è chi lo fa da decenni e grazie a questo è vincente, per cui è solo una questione di visione e missione. Certo serve una classe dirigente all’altezza del cambiamento, sulla cui creazione occorre investire (questo è forse lo sforzo maggiore, ma le rivoluzioni si fanno con le persone e i piani di azione non possono trascurarlo). Quelli indicati sono alcuni dei diversi esempi che si possono fare di cambiamenti che aiuterebbero, e non poco, senza chiedere sacrifici.
Sacrifici che meritano una riflessione approfondita. In questi giorni stanno emergendo, infatti, diversi pezzi sulla stampa e sui media sulla questione economica legata alla transizione energetica e sul suo impatto secondo alcuni non sostenibile, soprattutto in collegamento con i costi della guerra in Ucraina e la combinazione di inflazione e tassi di interesse in rialzo. Il tutto condito da sondaggi per cui c’è una parte della popolazione – che, secondo l’articolo di Ferrera sul Corriere dell’11 luglio, è pari al 15% – che è contraria al cambiamento se questo ridurrà il welfare o avrà effetti negativi sulla propria condizione economica. Solo il 25% degli intervistati, per la stessa indagine, è convinta che decarbonizzazione e crescita economica siano conciliabili. I numeri si riferiscono agli italiani che, come spesso capita, mostrano percentuali di scetticismo più alte della media europea (il che non è necessariamente un male).
Il tema, comunque la si veda, è delicato e centrale. E per questo richiederebbe un’analisi anche nell’ambito del Piano. Partendo da un presupposto, taciuto in tutti i contributi che ho letto, ossia il costo del non intervento, che ovviamente ricadrebbe sulle stesse fasce di popolazione preoccupate dall’onere del cambiamento, anzi, lo farebbe in modo ancora più diretto e, secondo gli scenari che mi è capitato di leggere negli anni (IPCC, Commissione europea e JRC, etc.), con un impatto maggiore. Lo sforzo di tutti dovrebbe essere rivolto all’affrontare la problematica in modo costruttivo, ragionando su come la trasformazione possa essere condotta producendo crescita e non solo effetti negativi.
Correlato a questo, un elemento che nel PNIEC manca perché non richiesto, ma che sarebbe fondamentale discutere in parallelo, è un’analisi approfondita delle filiere industriali e dei servizi, per comprendere come i cambiamenti previsti possano essere incanalati per generare nuova crescita, ovviamente con meno emissioni. Non si possono, infatti, affrontare temi come la riqualificazione degli edifici e la motorizzazione delle auto solo in termini difensivi; conviene piuttosto indagare su come nuove imprese, nuovi prodotti e nuovi servizi possano bilanciare quanto verrà meno. Tanto la storia insegna che il cambiamento non si preoccupa di chi non lo accetta, ma premia chi ha visione e sa cambiare sentiero quando serve. Sarebbe dunque importante che nei prossimi mesi si avviasse un approfondimento serio su questi aspetti e su come l’Italia e l’Europa potrebbero beneficiarne. Senza dimenticare che le imprese sono molto più portate al cambiamento di quanto non lo sia la politica, che dovrebbe essere molto cauta nel giocare su consensi facili da trovare, ma molto pericolosi e, soprattutto, dannosi, in particolare per le fasce più deboli e sensibili.
Per concludere, la questione, a mio avviso, non sta tanto nel perdere tempo a litigare se il PNIEC sia ambizioso o meno. La risposta potrà infatti essere positiva o negativa a seconda del termine di raffronto (i.e. la sfida del cambiamento climatico globale? gli obiettivi europei? il potenziale nazionale? i risultati conseguiti negli ultimi anni? la capacità di spesa pubblica? etc.). Al di là di questo, è evidente che occorre fare il massimo – non solo per il clima e l’ambiente, ma soprattutto per le persone e la necessità di condividere meglio ricchezza e benessere – e che questo massimo potenzialmente va oltre gli obiettivi fissati nel Piano. Ma è ancora più importante, laddove si creda questo, sforzarsi di attivare tutte le azioni valide sia in ottica bottom-up (azioni dei singoli) sia top-down (politiche e incentivi) per consentire la trasformazione auspicata. Ed è molto più probabile che questo possa avvenire in un contesto pacato e di collaborazione che in uno di scontro tra fazioni.