Non succede mai niente, ma quando succede, succede tutto assieme. Si potrebbe raccontare così l’esperienza vissuta sui mercati energetici a partire dalla seconda metà del 2021, quando i prezzi del gas – e conseguentemente dell’energia elettrica – sono saliti sull’ottovolante.

Breve riassunto: tre anni fa, a giugno 2020, nel pieno del Covid, il TTF si scambiava a 5 €/MWh. Fast forward: a giugno 2021 sfondava la barriera psicologica dei 30 €/MWh. Da lì iniziò una cavalcata che spinse il benchmark europeo del gas ai record del 5 ottobre (126 €/MWh) e del 21 dicembre (180 €/MWh). Poi un calo, infine – 23 febbraio 2022 – l’invasione russa in Ucraina. Da lì una nuova cavalcata che sfonda ogni barriera: 227 €/MWh il 7 marzo, 338 €/MWh  il 26 agosto. Infine, il crollo: mentre scriviamo questo articolo, il TTF è tornato al di sotto dei 30 euro.

Si è scritto molto sull’andamento del TTF in questi mesi. Si sono esaminate tutte le cause: i vincoli di offerta, la crisi congiunturale dell’eolico nel mare del Nord e del nucleare francese, l’uso dei gasdotti come arma d’offesa da parte di Vladimir Putin, le sanzioni europee, la corsa a riempire gli stoccaggi la scorsa estate. I rincari (e poi i ribassi) del gas hanno trascinato nella medesima direzione le borse elettriche, facendole prima imbizzarrire e poi ritracciare.

I governi hanno reagito in modo disordinato. Acer ha censito 429 interventi da parte degli Stati membri dell’Unione europea, tra misure di sostegno ai consumatori e manipolazioni più o meno transitorie delle regole di mercato. La maggior parte di questi provvedimenti erano mossi dalle migliori intenzioni. Raramente però queste portano buoni consigli. E infatti hanno inflitto al funzionamento dei mercati costi difficili da quantificare ma verosimilmente assai persistenti nel tempo.

L’aumento dei prezzi e quindi dei costi dell’operatività sulle borse hanno comportato un’escalation delle spese che è necessario sostenere per partecipare ai mercati. Di per sé questo ha prodotto una riduzione degli scambi e della liquidità, esponendo i mercati a rischi di abusi. Ma, più ancora di questo fenomeno tutto sommato fisiologico e prevedibile, ha influito il messaggio proveniente dalle politiche pubbliche, che hanno investito sia i mercati all’ingrosso sia quelli al dettaglio. Ci si è molto concentrati sull’impatto sulle finanze pubbliche e sul potenziale incentivo ai consumi – proprio quando serviva incoraggiare il risparmio – derivante dai vari sgravi e crediti d’imposta, come la fiscalizzazione degli oneri generali di sistema per tutte le famiglie in Italia (indipendentemente dal reddito) o il freno ai prezzi in Germania. Si è ampiamente commentato come ciò abbia determinato una distribuzione diseguale degli aiuti in Europa, frammentando le politiche e determinando un oggettivo vantaggio per quei paesi che avevano un maggiore spazio fiscale.

Ci si è concentrati meno, invece, sulle conseguenze di lungo termine di altre manovre, con cui i governi hanno messo mano – direttamente o indirettamente – al funzionamento stesso dei mercati. Per citare solo alcuni casi, il price cap sul gas a livello europeo, il tetto ai ricavi per i produttori infra-marginali di energia elettrica (180 €/MWh a livello europeo a cui si aggiungono limiti nazionali, come quello di 60-70 €/MWh su alcuni impianti in Italia), l’obbligo di rateizzazioni e il divieto di variazioni unilaterali dei contratti non hanno solo imposto costi immediati agli operatori. Hanno anche e soprattutto mandato un messaggio chiaro: in caso di emergenza le regole si cambiano senza preoccuparsi troppo di quali siano gli effetti inintenzionali delle riforme. A maggior ragione la discussione sul disaccoppiamento dei prezzi elettrici da quelli del gas – per ora risoltosi in una bolla di sapone – ha alimentato dubbi e incertezze. Per non dire delle svariate imposte sugli extraprofitti, che hanno seguito il principio del “ndo cojo cojo”, mettendo in difficoltà alcuni ed esonerando altri sulla base di fattori del tutto casuali.

Il paradosso è che, proprio mentre non si fa che ribadire la necessità di avviare un nuovo e colossale ciclo di investimenti per emancipare l’Europa dal gas russo e contestualmente raggiungere la neutralità climatica, si sono private le imprese sia delle risorse da investire, sia della fiducia nella robustezza del quadro di riferimento. A questo si aggiunge la progressiva chiusura nazionalistica contro l’importazione di pannelli dalla Cina e l’enfasi sulla produzione nazionale di tecnologia, componenti e materie prime. L’esito di questa fase non può che essere un aumento strutturale dei costi della decarbonizzazione, che va mano nella mano con la rincorsa a rendere i target sempre più ambiziosi. Cosa potrebbe mai andare storto?