Le conseguenze sempre più estreme del cambiamento climatico sugli individui e sulle comunità pongono al centro dell’attenzione temi che, un tempo, erano solo marginalmente considerati. Nel linguaggio collettivo si fa sempre più uso di diritto al clima, di giustizia climatica, di contenzioso climatico, di responsabilità delle nazioni più avanzate economicamente rispetto a quelle più povere, di diplomazia climatica. Tutti temi estremamente complessi, dalle diverse dimensioni e implicazioni di cui, non senza difficoltà, la scienza giuridica sta definendo i contorni. Abbiamo provato a fare chiarezza con il Dott. Riccardo Luporini, Assegnista di ricerca presso l’Istituto DIRPOLIS della Scuola Superiore Sant’Anna e Associato e membro del Consiglio direttivo di JECA (Justice, Environment and Climate Action)
Il cambiamento climatico genera ingiustizia, spesso nei confronti di quei paesi che hanno contribuito meno di altri alla genesi del fenomeno. Si parla quindi di giustizia climatica e di una nuova dimensione che è quella del contezioso climatico. Ci spiega di cosa si tratta e come negli anni questi concetti si stanno evolvendo?
Si possono distinguere almeno due diverse dimensioni della questione della giustizia (o meglio ingiustizia) climatica. La prima dimensione è quella internazionale, a cui si faceva giustamente riferimento: esiste un’evidente difformità tra gli Stati che hanno storicamente contribuito di più al fenomeno del cambiamento climatico e quelli che subiscono, almeno per il momento, gli effetti più avversi. In realtà, è sempre più evidente che non sono solo gli Stati più sviluppati in quanto tali, ma soprattutto alcune specifiche compagnie o gruppi economici, le cui operazioni spesso attraversano i confini statali, a contribuire in larga parte al cambiamento climatico, e dunque ad avere, in un certo senso, responsabilità maggiori. Allo stesso tempo, occorre notare che all’interno degli stessi Stati, anche quelli più sviluppati, è una frazione minoritaria e più ricca della popolazione ad emettere di più (si veda ad esempio qui).
La seconda dimensione è quella intergenerazionale: le generazioni più giovani, e quelle future, sono e saranno maggiormente colpite. Direi che negli ultimi anni questa dimensione si è consolidata, anche grazie all’azione di giovani attivisti di tutto il mondo, che sono spesso indebitamente criticati per i metodi, ma che, indubbiamente, e nella sostanza, esprimono un dissenso “giusto”.
Infine, con il termine “contenzioso climatico” (“climate change litigation” in lingua inglese, si veda qui) si fa riferimento a un variegato insieme di azioni legali concernenti il cambiamento climatico e i suoi impatti. Una parte di queste azioni, solitamente promossa da attivisti, organizzazioni non governative e associazioni di stampo ambientalista e sociale, reclama politiche di contrasto più stringenti, una tutela adeguata degli individui e delle comunità più vulnerabili e il riconoscimento delle responsabilità dei governi inadempienti e degli attori privati maggiormente inquinanti. Negli ultimi anni, diverse corti nazionali e organismi internazionali hanno riconosciuto violazioni di diritti umani in relazione all’insufficiente azione di mitigazione (riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra) e adattamento al cambiamento climatico da parte delle autorità pubbliche. Oggi, anche l’Italia ha la sua prima “causa climatica”, pendente davanti al Tribunale civile di Roma (si veda qui). Lungi da poter essere considerato una panacea, il contenzioso climatico è certamente un ulteriore strumento utile ad affrontare le questioni di ingiustizia climatica.
A marzo anche l’Onu ha adottato una risoluzione storica sulla giustizia climatica? Quali sono i contorni di questa risoluzione e perché costituisce una “risoluzione storica” per proteggere il sistema climatico "per le generazioni presenti e future".
Il 29 marzo 2023 l’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni unite (ONU) ha adottato una risoluzione tramite la quale si richiede alla Corte internazionale di giustizia (CIG), il principale organo giurisdizionale ONU, un parere consultivo sugli obblighi degli Stati in relazione al cambiamento climatico. In un certo senso, può essere corretto definirla una “risoluzione storica”, quantomeno per il successo della campagna di elaborazione e promozione della risoluzione guidata dallo Stato di Vanuatu che, come gli altri piccoli stati insulari, è severamente colpito dagli effetti del cambiamento climatico, specialmente dall’innalzamento del livello del mare. Allo stesso tempo, tuttavia, occorre sottolineare che la risoluzione di per sé costituisce un mezzo e non un fine, e il fine, cioè il parere da parte della CIG, dimostra alcuni limiti. In primo luogo, il parere consultivo non ha efficacia giuridica obbligatoria nei confronti degli Stati. In secondo luogo, la Corte potrebbe dimostrarsi, come già accaduto in passato, meno “progressista” del previsto e non aggiungere granché agli obblighi internazionali già codificati nei trattati internazionali vigenti, come la Convenzione quadro del 1992 e il più recente Accordo di Parigi. D’altro canto, i pareri consultivi della CIG godono di una indiscutibile autorevolezza internazionale e possono dare impulso decisivo allo sviluppo, ma anche all’attuazione, degli obblighi internazionali. L’evidenza scientifica sempre più incisiva, la preoccupazione crescente nella società civile, e i primi successi del contenzioso climatico, potrebbero spingere i giudici internazionali a rilasciare un parere capace di cogliere, almeno in parte, le alte aspettative.
Durante la COP27, che per molti versi è stata fallimentare, per la prima volta dopo trent’anni, i paesi in via di sviluppo riescono ad ottenere il riconoscimento del principio del “loss and damage”. Di cosa si tratta e perché riveste rilevanza?
Innanzitutto, io non direi che la Cop27 è stata fallimentare. Direi più che altro che questi consessi internazionali dimostrano limiti intrinseci, su cui magari si può tornare in seguito. Con il termine “loss and damage”, “perdite e danni” in italiano, si fa riferimento al nuovo terzo pilastro dell’azione climatica. Lo schema è logico. In primo luogo, occorre mitigare il cambiamento climatico riducendo le emissioni di gas ad effetto serra. In secondo luogo, occorre adattarsi al cambiamento climatico, adottando una serie di misure per trasformare la nostra società e renderla più resiliente. Infine, si deve far fronte alle “perdite e danni”, in termini di capitale economico, naturale, sociale, umano che faranno seguito ad ogni modo, nonostante gli sforzi di mitigazione e adattamento, agli impatti del cambiamento climatico. Storicamente, la battaglia sul riconoscimento del “loss and damage” come effettivo terzo pilastro dell’azione climatica a livello internazionale è stata condotta, a buon motivo, dai Paesi meno sviluppati e maggiormente colpiti, tramite richieste di risarcimento nei confronti degli Stati industrializzati, quali primi responsabili nel causare le perdite e i danni. Non a caso, nei negoziati internazionali sul clima, i termini “risarcimento”, e “responsabilità” sono sempre stati considerati dagli Stati sviluppati, e, in particolare, dagli Stati uniti delle linee rosse invalicabili.
In maniera e tempi alquanto inaspettati, lo scorso anno a Sharm el-Sheik si è arrivati a un accordo sull’istituzione di un fondo dove si stanzieranno nuove risorse per affrontare le perdite e i danni dovuti al cambiamento climatico. Anche questa può essere definita una decisione “storica”. Tuttavia, anche in questo caso si evidenziano alcuni limiti. Molti nodi rispetto all’attuazione del fondo rimangono irrisolti, in relazione a quali Stati stanzieranno risorse, quali le riceveranno e, soprattutto, che tipo di perdite e danni saranno considerati risarcibili, o meglio “finanziabili”, visto che nelle decisioni adottate, non a caso, i riferimenti a “risarcimenti” o “responsabilità” sono stati omessi. Le suddette questioni sono in discussione in questi giorni ai negoziati intermedi di Bonn. Per i più interessati, consiglio vivamente di seguire i bollettini in lingua italiana preparati dall’Italian Climate Network (si veda qui e qui). Infine, occorre sottolineare che la questione del “loss and damage” non deve affatto offuscare, come è accaduto a COP27, i risultati (ancora carenti) ottenuti in relazione ai primi due pilastri dell’azione climatica (mitigazione e adattamento), che restano senza dubbio prioritari.
Abbiamo parlato di COP27, in questi giorni si terrà Bonn Climate Change Conference e il prossimo novembre la COP28. Quale è l’effettivo ruolo di questi consessi internazionali? Cosa servirebbe per renderle più efficaci?
Torno con piacere su questo punto, solo accennato in precedenza. Le conferenze internazionali sul clima rivestono un ruolo fondamentale nel contrasto al cambiamento climatico. Non si può fare a meno della cooperazione internazionale tra gli Stati per far fronte al cambiamento climatico che è, in tutto e per tutto, un fenomeno globale. Allo stesso tempo, non ci si può aspettare che da questi consessi emergano soluzioni rapide e immediatamente attuabili. La diplomazia multilaterale segue i propri tempi (lunghi) e metodi (complessi). Basti pensare che in queste conferenze le decisioni sono adottate per consenso da parte di tutti gli Stati partecipanti…
Tuttavia, quello che forse servirebbe a renderle più efficaci è snellirle, rimuovendo quell’immensa sovrastruttura che sempre di più le caratterizza. Le conferenze sul clima sembrano ormai dei “festival”, con una miriade di side events, banchetti e quant’altro. Anche se poi i negoziati proseguono sottotraccia, il contesto non può che influenzarne i risultati, che sono evidentemente sproporzionati (al ribasso) rispetto all’enorme processo. Questa perlomeno è stata la mia impressione, quando vi ho partecipato. La riforma auspicabile, dunque, potrebbe essere quella di scindere i due eventi: il negoziato politico da una parte, che deve essere comunque reso il più possibile trasparente e aperto alla società civile (tramite la partecipazione di organizzazioni “observer”, limitate nel numero e che svolgano effettivamente questo ruolo) e, dall’altra, una conferenza, festival o fiera internazionale, come la si voglia chiamare, in cui si riunisca il mondo scientifico, accademico, associativo e del business per discutere e presentare soluzioni all’emergenza climatica (si veda qui per una simile argomentazione).