Nel tentativo di allineare le politiche per limitare il riscaldamento climatico con gli Accordi di Parigi del 2015, contenendo così l’aumento della temperatura ben al di sotto dei 2° e, idealmente, a 1,5° se comparato con i livelli pre-industriali, sempre più paesi stanno introducendo strategie per ridurre le emissioni di gas serra nei prossimi decenni. Un’azione che, come emerge dai risultati del sesto Assessment Report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), pubblicato nel 2023, non è più procrastinabile. In previsione di COP28, evento che si terrà negli Emirati Arabi Uniti a novembre 2023, diversi paesi hanno promulgato leggi e politiche che evidenziano il loro impegno a traguardare un’economia net zero carbon nel lungo periodo. Esempi includono la Svezia (Climate Act) che mira a raggiungere una neutralità carbonica entro il 2045; la Corea del Sud (Carbon Neutral and Green Growth Basic Act) che punta alla neutralità carbonica entro il 2050 e la Nigeria, che intende divenire un paese carbon neutral entro il 2060.
Interessante è anche il fatto che la lista include sempre più paesi a basso e medio reddito che presentano traiettorie di crescita industriale ed economica significative nel futuro. Indice che la transizione energetica non riguarda soltanto le economie avanzate, ma è un processo che consentirà industrializzazione e crescita economica, basata su tecnologie a basso impatto carbonico, per tanti altri paesi.
Pilastro fondante della transizione verso la neutralità carbonica è il phase-out dei combustibili fossili e la loro sostituzione con energie rinnovabili e tecnologie verdi. Tuttavia, traguardare un futuro a basso impatto carbonico richiederà grandi quantità di metalli e minerali. A titolo di esempio, almeno 16 differenti materiali sono richiesti per la costruzione di pannelli solari, mentre per la fabbricazione di turbine eoliche o di batterie per lo stoccaggio sono necessari input altamente intensivi dal punto di vista minerale e metallico. Si prevede, dunque, che la domanda di metalli per le tecnologie rinnovabili raddoppi entro il 2050, mentre quella per le tecnologie di stoccaggio sia ancora maggiore. Ciò pone l’Africa in una posizione assai favorevole per l’accesso e disponibilità di questi materiali. Una regione che dispone di vaste riserve di materie prime critiche come platino, manganese, cobalto, rame e bauxite. L’accesso e la disponibilità di questi minerali incideranno sempre più sulla geopolitica della decarbonizzazione, nella quale i paesi africani diverranno importanti attori. Per cogliere a pieno le opportunità che si presentano, vi sono però tre criticità che devono essere affrontate.
Partiamo dal primo aspetto. Per i paesi africani sinora l’integrazione delle catene di valore globali è stata particolarmente bassa e si è focalizzata quasi esclusivamente sull’esportazione di materie prime. Ciò ha lasciato i paesi vulnerabili a shock di prezzo sui mercati globali e non ha generato ricavi importanti, vista la necessità degli stessi paesi africani di acquistare dall’estero prodotti raffinati a costi assai più elevati. Nel caso in cui l’Africa intendesse davvero beneficiare della crescita della domanda di materie prime, occorre che la stessa si posizioni in più punti delle catene di valore, generando anche un ambiente più favorevole agli investimenti esteri. Ne seguirebbe altresì la creazione di occupazione e crescita economica. Un esempio positivo in tal senso è la realizzazione di una fabbrica per la costruzione di batterie per veicoli elettrici che verrà costruita in partnership tra Zambia e Repubblica Democratica del Congo. Inoltre, l’Africa potrebbe massimizzare i ritorni del recente Critical Raw Materials Act dell’Unione Europea, il quale elenca molti dei minerali di importanza critica per la propria transizione che si trovano nel Continente.
In secondo luogo, i legislatori dovranno essere preparati a rispondere alla crescente domanda di queste materie prime critiche e dovranno farlo con un controllo molto attento dell’industria estrattiva. Ciò include, tra l’altro, l’applicazione di criteri ESG (environmental, social and good goverance) e una legislazione ad hoc che regoli lo sfruttamento di minerali strategici nei propri paesi. Questo è necessario perché è responsabilità degli stessi governi assicurare che i ricavi provenienti da maggiori consumi di queste risorse apportino sufficienti benefici all’intera popolazione, contribuendo a una crescita economica sostenibile.
Infine, risulta prioritario ridurre le emissioni di gas serra del settore estrattivo, che da solo contribuisce alla parte più consistente del volume emissivo del settore dei minerali, utilizzando tutte le possibilità che la tecnologia e la ricerca avanzata oggi mettono a disposizione. Appare chiaro che le compagnie minerarie debbano giocare un ruolo primario nella riduzione dell’impatto carbonico delle operazioni minerarie e nell’applicazione di tecnologie a basso impatto ambientale. Un buon esempio è la Fortescue Company, la quale mira ad eliminare ogni utilizzo di combustibili fossili nelle operazioni relative allo sfruttamento dei minerali ferrosi entro il 2030. Molte altre compagnie, invece, stanno già utilizzando mezzi pesanti a idrogeno nei propri prospetti minerari.
Nel percorso che porta alla COP28, quindi, è importante ripensare il ruolo che l’Africa giocherà nelle catene di valore relative alle materie prime critiche. I paesi africani possono posizionarsi come importanti player nel nuovo ordine energetico globale. Serve, però, ancora tanto lavoro per sfruttare appieno tutte le opportunità che si prospettano nel continente. Il che richiederà impegno comune da parte di governi e settore privato.
Anja Berretta is Head of the Regional Programme Energy Security and Climate Change for Sub-Saharan Africa for Konrad-Adenauer-Stiftung based in Nairobi, Kenya.
La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di RiEnergia. La versione inglese di questo articolo è disponibile qui