Nonostante clima e ambiente siano nell’immaginario collettivo concetti contermini, le radici del diritto al clima hanno assunto una dimensione sempre più autonoma da quella del diritto all’ambiente. Ceppo comune di queste due nozioni è, senza dubbio, il dibattito sulla giuridicità dell’interesse individuale, polarizzato dai due estremi del diritto soggettivo assoluto e dell’interesse diffuso: il primo costruito sul teorema dell’ambiente come bene collettivo «divisibile» e sulla premessa che chiunque disponga di un potere di fruizione individuale della natura che lo circonda, quasi come se ogni persona avesse nella propria sfera giuridica una porzione infinitesimale di ambiente acquisita al modo dei diritti di proprietà o di personalità. Nel 1979 la Corte di Cassazione definì questa situazione “diritto all’ambiente salubre”, specificando che la tecnica con cui essa è salvaguardata dall’ordinamento è la stessa dei diritti «fondamentali» o «inviolabili». Qui anche la base del potere del singolo di fare causa a chi provochi inquinamento, incluso lo Stato, per ottenere dal giudice una decisione che condanni il convenuto a un comportamento idoneo a garantire la conservazione del bene collettivo «circostante».
Il modello di tutela contro gli inquinamenti basato sul diritto assoluto, lo stesso che ancora oggi i giudici applicano nelle controversie sulla lesione del diritto alla salute, ha radici molto solide, come tutti i teoremi giuridici civilistici; la sua fortuna è legata alla facilità di azione, alla non essenzialità di forme associative ai fini dell’accesso alla giustizia, insomma all’idea di “liquidità” che tanto piace ai cultori delle libertà. Ma la cosa che più conta, nella dottrina della Cassazione, è la “non degradabilità” del diritto assoluto da parte dei pubblici poteri, vale a dire l’impermeabilità della forma di tutela alla natura del soggetto convenuto, che rende lo Stato presuntivamente ridotto alla medesima condizione del litigante privato, facendo uscire di scena qualsiasi rilievo dei compiti pubblicistici che la legge gli affida a tutela degli interessi collettivi.
Non meraviglia che la tutela del clima si sia appigliata a questi ideali nel momento in cui ha sortito i primi esiti giudiziari.
Il secondo estremo, l’interesse diffuso, è al contrario basato sulla teoria dell’ambiente come bene indivisibile e sulla premessa che la garanzia giuridica dell’individuo vada ricercata esclusivamente nella legittimità dell’azione dei pubblici poteri ai quali la legge attribuisce funzioni di difesa dell’ambiente. I tre pilastri della convenzione di Arhus (1998) rappresentano il precipitato di quest’ultima prospettiva, nella quale il punto d’incontro tra l’individuale e il sociale si trova anzitutto nella democratizzazione dei procedimenti amministrativi e nella trasparenza delle organizzazioni: diritto di accesso alle informazioni, diritto di partecipazione alle decisioni pubbliche, diritto di accesso alla giustizia in materia ambientale. Da tale seconda angolazione la tecnica di tutela che non è più quella del diritto «fondamentale», ma quella dell’interesse legittimo, condizionata dalla ricerca di una posizione legittimante alla proposizione del mezzo di tutela amministrativa o giurisdizionale, in ogni caso circoscritta all’annullamento di decisioni assunte dalle pubbliche autorità.
Le prime nebbie del diritto al clima ricordano in effetti molto quelle del diritto all’ambiente: militanza civica e giudiziaria organizzata in modo sempre più “tattico” da parte di gruppi o associazioni (si pensi a Greenpeace o Client Earth); impegno sempre più forte degli Stati nei consessi internazionali (in specie dell’ONU) per la regolazione delle emissioni climalteranti; denuncia di inefficienza di quest’azione e parallela crescita esponenziale del contezioso strategico, contro Stati e grandi inquinatori privati (es. multinazionali), talvolta culminante in pronunce giurisdizionali ribattezzate “cause del secolo” o “sentenze storiche”.
È balzato così all’attenzione delle grandi masse un fenomeno giudiziario che ha assunto una diffusione davvero planetaria. Mi riferisco appunto a quel “contenzioso climatico” che, dopo gli accordi di Parigi del 2015, vede gli Stati (e non solo i più industrializzati) convenuti in controversie civili promosse da singoli e associazioni in nome della giustizia climatica e dei diritti delle future generazioni, per sentirli dichiarare responsabili e, se del caso, condannarli a ridurre le emissioni al di sotto di una certa soglia.
Germania, Olanda, Francia, sono i Paesi europei che hanno conosciuto più da vicino queste “vittorie epocali” delle giovani generazioni (preferirei chiamarle “giovani”, dubitando personalmente che le “future” generazioni abbiano a che vedere con i soggetti che si sono resi protagonisti di questi processi). L’Italia avrà nei prossimi tempi un responso nella causa denominata «Giudizio universale», proposta al Tribunale di Roma. Sempre al Tribunale di Roma, un nuovo giudizio è stato recentemente incardinato contro ENI.
Ma l’elenco sarebbe interminabile, basti pensare che assieme al fenomeno in esame crescono anche i centri universitari che osservano la climate change litigation; si pensi ad esempio il database (Sabin Centre for Climate Change Law) creato presso la Columbia University, che registra quasi in tempo reale da tutto il Pianeta il promovimento di nuovi contenziosi e ne offre una succinta descrizione.
Un importante fattore di sviluppo, nel caso dell’Italia, è stata anche la modifica degli articoli 9 e 41 della Costituzione. Dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, la Repubblica «tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni» (art. 9). L’ambiente diventa un limite costituzionale dell’iniziativa economica privata; ma anche un «fine» dell’attività economica «pubblica e privata» da raggiungere mediante «programmi e controlli», come tutti gli altri «fini sociali» ai quali le stesse attività devono essere indirizzate e coordinate (art. 41, commi 2 e 3).
Di fronte a questi sommovimenti, il mondo strettamente accademico, nazionale e internazionale, ha focalizzato la propria attenzione sui vari aspetti della soggettività intergenerazionale. Ci si interroga su cosa sia il diritto al clima come specie di situazione individuale (da cui anche l’aspetto della legittimazione ad agire in giudizio) nonché sull’esistenza e sui limiti del “dovere di protezione” dello Stato, che darebbe sostanza al correlativo diritto soggettivo, permettendone la concreta coercizione, quindi la condanna dello Stato. Inutile soggiungere che il dibattito è ancora lungi dall’essere composto, giacché ad atteggiamenti di accettazione della sfida e di creatività scientifica (tra loro stessi, peraltro, molto diversi), si contrappongono opinioni giuridiche radicalmente svalutative e talvolta avverse alla stessa riforma costituzionale.
In tema di “diritto al clima”, la scienza giuridica ha però avvertito anche il compito di dipanare le prime nebbie, muovendosi in un’area libera da estremizzazioni o da dogmi più o meno confessati.
Questo, a me pare, rappresenta il futuro del nostro dibattito. Come si verificò nel secolo scorso per il diritto dell’ambiente, anche per il clima è prevedibile il volgere a compimento di un certo modo di assolutizzare i concetti, un raffinamento delle prospettive, un ravvicinamento della scienza giuridica a problemi assai più concreti e più aderenti alla realtà degli ordinamenti statali contemporanei.
Incomincerei proprio dall’importanza della climate change litigation, di cui ho detto fin qui: un fenomeno da non sottovalutare, ma che forse è già tempo di descrivere in guisa un poco demistificata.
È fin troppo facile, intanto, la considerazione che non si tratta di un fenomeno unitario. Non solo per la banale considerazione che ogni ordinamento ha una sua Costituzione, una sua organizzazione dei pubblici poteri, un suo sistema di giustizia amministrativa e costituzionale. Spesso parliamo di Stati ubicati in diversi continenti, i cui obblighi internazionali sono soltanto in parte, o per nulla, gli stessi.
Le differenze di approccio vi sono anche nel tipo di processo cui danno vita questi grandi movimenti di esecuzione giudiziaria degli Accordi di Parigi. Mi limito qui a una distinzione: alcuni s’incanalano in processi dalla struttura tipicamente impugnatoria di leggi o atti amministrativi (Germania, Francia, Irlanda), altri in giudizi di accertamento dell’inadempimento da parte dello Stato della cosiddetta obbligazione “civile-climatica”, teorizzata in base a clausole generali, là dove il dato scientifico, senza troppe spiegazioni, si converte in fondamento e misura di una responsabilità giuridica.
Nel primo caso si assiste a un chiaro ripiegamento della tecnica di tutela su schemi di giudizio più tradizionali e non tendenti a un giudicato che sancisca la prevalenza piena del diritto sul potere (ad es. il sindacato di proporzionalità o di eguaglianza o ragionevolezza): oggetto del giudizio è un atto, legislativo o amministrativo, della cui validità si controverte; l’epilogo sarà inevitabilmente un giudicato aperto a un nuovo esercizio del potere da parte del legislatore o dell’amministrazione.
Nel secondo caso il soggetto che agisce in giudizio lo fa per l’adempimento di un’obbligazione e, coerentemente, punta tutto sulla formazione di un giudicato interamente satisfattivo, che fissi cioè direttamente in sentenza non solo l’an ma anche il quantum del “dovuto” (l’abbattimento delle emissioni) in applicazione di una regola scientifica sostitutiva di quella posta dal legislatore.
In Europa non vi sono molte sentenze emblematiche di questo secondo modello, contrariamente a quanto talvolta si legge; anzi gli unici precedenti sono le pronunce emesse in Olanda contro lo Stato olandese e, successivamente, contro la Shell; nonché le cause pendenti a Roma contro lo Stato italiano.
Riguardo a questo secondo tipo di contenzioso, peraltro, rimangono da risolvere alcune importanti questioni processuali, che pure non si possono sottacere. In punto di legittimazione ad agire per esempio (chi può intentare la causa “climatica”?), molto resta da indagare. Per ora tutto sembra acquietarsi nella contemplazione dell’associazionismo e della giovane età di chi ricorre al giudice. È questa l’ingenua metafora dello “Stato trisavolo”, quasi come se i giovani d’oggi rappresentassero il futuro e, i governi, il passato; e come se le vecchie generazioni dell’epoca presente non fossero anch’esse, ripercorrendo a ritroso la storia dell’umanità, le “future generazioni” di due millenni fa, gravate dal peso dell’inquinamento ereditato.
Seconda questione: le norme poste a fondamento della pretesa. Le cause climatiche richiamano spesso le cosiddette Carte dei diritti, per esempio gli articoli 2 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (o per i giudici che osano di più, gli stessi Accordi di Parigi), per tutelare interessi che – lo dicono le stesse sentenze – restano giocoforza “diffusi”. L’esigenza di comporre questa non lieve contraddizione è il motivo per cui spesso le Corti hanno escluso sbrigativamente la legittimazione ad agire dei singoli, per riconoscerla invece alle sole associazioni (le uniche a poter accedere al giudizio, in quanto rappresentative o “esponenziali”). Nel che il giurista percepisce qualcosa di buono, ma anche una possibile insidia: avverte un incremento di giustizia, per effetto dell’azione dei gruppi (ecco la cosa buona), ma anche un decremento di certezza sulle situazioni individuali giuridicamente protette. La causa è fatta per il clima: ma a vantaggio di chi, realmente? Se la formazione sociale è il luogo di convergenza naturale dei diritti dei singoli, d’altronde quello delle associazioni è un potere che cerca nel giudice la spalla adatta a qualificarlo come contropotere politico, quasi a voler rimpiazzare il “sovrano” con un portatore d’interesse scientificamente qualificato. Al quale, non si sa bene perché, donne e uomini delle presenti e future generazioni dovrebbero affidarsi, ed il quale, alla fin fine, assomiglia davvero molto, quanto ad ambizioni e legittimazione, al soggetto contro cui combatte.
Terza questione: il parametro interpretativo che il giudice deve adottare nel processo. Ammettiamo senza problemi, com’è in effetti difficilmente opinabile, che il peggioramento del clima per effetto delle emissioni di gas effetto serra sia una verità obbiettiva; diciamo pure una legge sociale, basata su regolarità causali (se non si limitano le emissioni, la temperatura della terra si alzerà fino a minacciare l’esistenza del Pianeta). Ma siamo certi che in essa – ad esempio nei report dell’IPCC – vi sia una “norma sociale” tanto precisa da figurare ex sé quale “norma giuridica”, capace di fornire la percentuale di abbattimento della CO2 e degli altri gas a effetto serra, senza l’intermediazione del legislatore, nazionale o internazionale?
Di qui, il passo è brevissimo alla quarta questione: la postulazione dell’esistenza di un obbligo internazionale coercibile attraverso clausole generali di responsabilità. Il punto di vista di chi si afferma portatore del diritto al clima può essere drasticamente contraddetto, ma al tempo stesso liquidato, esattamente dal verificarsi dei fatti a cui esso aspira e cioè l’adempimento dell’obbligazione climatica.
Gli ultimi anni, nell’Europa “a 27”, ma anche in sede ONU – inutile dire, peraltro, che vi è ormai un dialogo costante tra i due ordini di istituzioni – hanno visto accrescersi tumultuosamente atti della più varia specie: dalle dichiarazioni programmatiche delle COP, ai report dell’ICCP, alle comunicazioni, alle raccomandazioni, ai veri e propri atti-fonte del diritto dell’Unione europea. Quale sarà il destino del contenzioso climatico nelle aree della Terra, come appunto l’Europa, in cui esiste adesso una specifica normativa? Mi fermo a un caso emblematico: l’art. 4 del Regolamento (UE) 2021/1119 impone agli Stati membri un abbattimento delle emissioni di almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030. Entro lo stesso anno (2030), per gli attori nella causa “Giudizio universale”, l’abbattimento dovrà essere del 92%. A quale norma darà retta il Tribunale di Roma? Siamo certi che la clausola «almeno» il 55% consenta al giudice di dichiarare, applicando le clausole generali di responsabilità, l’obbligo dell’Italia di arrivare al 92%, in conformità alle richieste dell’Associazione attrice, la quale ha dalla parte sua il parere (per quanto qualificato) di un tecnico?
Ultima problematica. Il gemellaggio tra clima e ambiente, con ogni probabilità, è un punto di partenza, ma non può essere presunto oltre un certo segno. Molto spesso – il tema energetico ne è l’esempio – nelle aule giudiziarie sono venute alla luce situazioni dalle quali si avverte un dilemma, un aut aut, tra la tutela del clima e quella dell’ambiente: si pensi all’applicazione delle norme sull’impatto ambientale degli impianti di produzione di energie rinnovabili, la cui incidenza sull’equilibrio dell’ecosistema è sotto gli occhi di tutti, pur non essendo in discussione che essi servano a ridurre le emissioni climalteranti. Questo permette di allargare l’angolo di visuale, per concludere che la stessa materia climatica vede un bilanciamento di interessi sensibilmente diverso da quello della tutela dell’ambiente. Nella materia della protezione del clima, la legge ha una struttura incentivante o premiale, elargisce ricompense a chi adotta certe tecnologie, non vieta comportamenti nocivi. Il che accade, ma non sempre, e non necessariamente, in materia ambientale.
Ciò che vorrei dire, con parole più chiare, è che il diritto di iniziativa economica privata non è più, diversamente com’è stato a lungo – e come forse ancora è per buona parte – il diritto dell’ambiente, la posizione inquinante da sacrificare sempre e in ogni caso, in nome degli interessi sociali che mettono capo alla collettività. Se l’abbattimento delle emissioni è – come è – un processo industriale, la libertà economica è un frammento essenziale del disegno di neutralità climatica ed esige anch’esso garanzie acconce alla sua realizzazione, non più soddisfatte dal modello che gli economisti chiamano “comando e controllo”.
Ecco un’altra grande questione che, nonostante sia sulla bocca di tutti, non mi sembra ancora bene messa a fuoco, a giudicare dalla debole reazione della scienza giuridica a pronunce che hanno riservato un trattamento non proprio ortodosso ai diritti dell’impresa. Penso per esempio alla giurisprudenza amministrativa sulla decadenza dagli incentivi per le energie rinnovabili (o dal diritto alle quote ETS) e così anche agli orientamenti della Corte di giustizia: emblematica la vicenda del giudizio sulla compatibilità euro-unitaria decreto-legge n. 91/2014 sulla rimodulazione delle tariffe incentivanti, cd. “spalma-incentivi”.
Molte altre cose vi sarebbero da dire, al riguardo, ma è tempo di terminare. Mi auguro di aver lasciato intendere che per la scienza giuridica, il diritto al clima richiede ancora tanto da fare, ma soprattutto molto da chiarire e, entro certi limiti, la radicale espunzione di argomenti ingannevoli.
Eppure, dopo tante critiche e precisazioni, si deve ammettere che la domanda va fatta e può avere una risposta, certo parziale, ancora provvisoria, ma egualmente formulabile. Esiste un “diritto al clima”?
La mia impressone è che in futuro questo lemma, lungi dall’acquistare robustezza in termini giuridici, sarà progressivamente svuotato dei significati che ha oggi, se le coordinate rimarranno quelle della pretesa individuale (singola o associata) all’abbattimento delle emissioni. Una cosa è la responsabilità di uno Stato che non vuole inserire il clima tra le proprie politiche di benessere, altra cosa è la responsabilità di uno Stato impegnato nell’abbattimento delle emissioni: semplicemente, criticato o non “condiviso”. Diverso, forse, sarà il progredire della nozione in altri campi dell’esperienza giuridica.
Nel 2021 la Cassazione ha stabilito il diritto alla protezione umanitaria del cosiddetto migrante climatico: una persona, in quel caso proveniente dal delta del Niger, che a causa di una situazione che in Italia si definirebbe “disastro ambientale”, vedeva minacciato il proprio diritto alla vita. Nell’accogliere il ricorso, la Corte ha dato ampio risalto, in motivazione, al celebre caso di Ioane Teitiota, un uomo proveniente dalle isole Kiribati, là dove la terra rischia di essere sommersa dall’oceano, che aveva chiesto protezione internazionale in Nuova Zelanda per sé e per la propria famiglia e che dopo il rifiuto delle autorità neozelandesi si era rivolto al Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite. Teitiota non ha avuto fortuna neanche all’ONU, com’è noto, giacché il tema da lui proposto era quello di un “rischio” che al Comitato è parso ancora astrattamente gestibile dalle Kiribati, piuttosto che quello di un concreto ed imminente “pericolo” di vita. Il Comitato ha però fissato alcuni fondamentali princìpi, gli stessi che la Cassazione ha ritenuto applicabili al caso di cui s’è detto e che ora hanno suscitato un ampio e vivace dibattito in dottrina. Incontriamo qui un diritto dell’uomo nel senso più stretto del termine, spogliato della sua matrice statuale. Un diritto che si presenta agli occhi del giurista senza orpelli teorico-generali, lontano dalla problematica del bilanciamento tra i diritti dell’economia e la preservazione delle risorse naturali: proprio e solamente una pretesa della persona a vivere là dove la Terra lo permette. Ecco forse, viene da pensare, la radice dell’unico, vero, autentico “diritto al clima”.