Ha qualcosa a che fare con la crisi bancaria in Europa e negli Stati Uniti la decisione di tagliare la produzione petrolifera di 1,16 milioni di barili a partire da maggio, presa a sorpresa dai paesi produttori dell’OpecPlus domenica scorsa? Sembrerebbe proprio di no. Ma allargando la visuale possono intravedersi connessioni dai tratti inquietanti tra i due fatti apparentemente estranei uno all’altro. Al centro di questo indovinello ci sono le banche centrali occidentali, Fed e Bce, che dopo anni a briglie sciolte col quantitative easing stanno da alcuni mesi tirando i remi in barca con politiche monetarie assai restrittive. Combattono l’inflazione innescata dall’aumento dei prezzi delle materie prime alzando i tassi di interesse.

 Essendoci meno liquidità in circolazione, dollaro ed euro si rafforzano e hanno un effetto calmierante sui prezzi delle materie prime, petrolio incluso, fissati per l’appunto in dollari. Ma l’aumento del costo del denaro ha come risvolto negativo anche quello di colpire le banche europee e americane più indebitate. Di qui la crisi di Svb, Credit Suisse e Deutsche Bank. E anche se il dollaro forte solitamente piace ai paesi produttori di petrolio, perché i barili vengono pagati in dollari, questa simpatia viene meno se la quotazione del Brent cala come se ci fosse un dazio implicito. Di qui la decisione di limitare l’offerta di petrolio dell’OpecPlus, per sostenere il prezzo del barile. A ben guardare quindi quello che è successo è il frutto dello scontro tra due potenze sovranazionali contrapposte: banche centrali occidentali da un lato, OpecPlus dall’altro. Ognuna delle quali spara le sue cartucce, operando su due terreni di gioco diversi, ma che comunicano tra loro: la Fed su un piano finanziario monetario, l’OpecPlus su quello fisico delle materie prime.

L’avversione dei paesi produttori di petrolio nei confronti delle banche occidentali ha radici lontane. Per comprenderle può essere utile ripercorrere le tappe di quel che accadde nel 2008, quando in settembre l’importante banca americana Lehman Brothers fu costretta a portare i libri in tribunale. Qualche mese prima, il prezzo del barile salì fino a sfiorare il record storico assoluto di 150 dollari, per poi di colpo sprofondare sotto i 40 dollari al barile, subito dopo che la banca appunto dichiarò il fallimento. Come ha ricostruito magistralmente Salvatore Carollo nel volume edito da Staffetta Quotidiana “Il petrolio nell’era del post-petrolio”, all’epoca la connessione tra crisi bancaria e alta tensione sui prezzi del petrolio fu di tipo meramente speculativo: per coprire i buchi in bilancio lasciati dallo scoppio della bolla sui mutui subprime, la Lehman Brothers dirottò molta liquidità sul Brent, considerato un investimento dai ritorni certi. La mossa favorì l’avvitamento di una spirale rialzista del mercato del petrolio, che diventò impossibile controllare, e che sì fermò solo quando la banca Usa smise di operare sul mercato. A quel punto, fu sotto gli occhi di tutti che il mercato dei futures del petrolio non era più un modo per coprirsi dai rischi, quanto piuttosto un’enorme “slot machine truccata”, che faceva vincere sempre chi scommetteva di più. Un boccone amaro da digerire per i paesi produttori, del tutto incapaci di influenzare il prezzo della materia prima venduta, fonte principale di sostentamento delle proprie economie e oggetto di speculazione selvaggia da parte delle banche.

Da allora ad oggi sono state fatte molte leggi negli Usa e nel Regno Unito per impedire alle banche di manipolare il mercato del petrolio, ma le zone d’ombra sono tante. Anzi per certi versi si sono moltiplicate le incognite perché molte delle certezze che c’erano nel 2008 oggi non ci sono più. Quindici anni fa la lotta al cambiamento climatico era molto meno pressante, mentre oggi le stesse compagnie petrolifere hanno abbracciato obiettivi di Parigi e criteri ESG, dichiarandosi pronte a rinnegare il Brent. Gli investimenti Oil&Gas sono sempre meno cospicui e si punta su giacimenti “facili”, quelli che non richiedono l’esposizione a grandi rischi o tecnologie particolarmente costose. Nelle strategie di investimento di “Big Oilil gas naturale ha più importanza del greggio, perché più sostenibile. Quindici anni fa non esistevano le criptovalute, pericolosa alternativa alla finanza tradizionale, con il primo bitcoin generato nel gennaio del 2009; i produttori del Golfo non erano infastiditi dalle esportazioni di greggio dagli Usa, perché non c’era stato ancora il boom dello shale oil e c’era ancora il divieto di spedire altrove l’olio estratto dal sottosuolo americano; le compagnie petrolifere investivano per perforare in acque ultraprofonde, perché non si era ancora consumato il disastro alla piattaforma DeepWater Horizon nel Golfo del Messico. Quindici anni fa, non esisteva l’OpecPlus, l’alleanza tra 23 paesi produttori guidata da Russia e Arabia Saudita - contrapposta agli Usa - e si consumavano circa 70 milioni di barili al giorno tra petrolio e prodotti petroliferi. Oggi ne consumiamo 30 milioni di più, oltre 100 milioni di barili al giorno.

In questo contesto instabile e a tratti contraddittorio, mentre – in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte del presidente russo Vladimir Putin – si assiste a una polarizzazione sempre maggiore tra le democrazie occidentali e le autocrazie in Russia, Cina e Medio Oriente, è impossibile non fare dietrologie. Da un lato, è vero che, analizzando l’andamento del prezzo del barile e gli sviluppi della crisi bancaria si nota che non ci sono stati grandi scossoni come nel 2008, quanto piuttosto sobbalzi emotivi di breve durata: da quando a metà marzo Svb è entrata in crisi ad oggi il prezzo del Brent è rimasto in una fascia compresa tra i 70 e gli 80 dollari al barile.

D’altronde, però è allo stesso tempo indubbio che quanto sta avvenendo nel mercato del petrolio non ha precedenti: da quando il G7 e l’Ue hanno imposto – tramite banche e compagnie assicurative – il “price cap” al petrolio e ai prodotti russi, ci sono circa 8 milioni di barili al giorno che hanno cambiato rotta e che vengono venduti in una moneta diversa dal dollaro. Questo spostamento modifica tutto l’assetto del mercato petrolifero, con forti ripercussioni sullo scacchiere geopolitico. In altre parole, se – come sembra - più barili russi vanno in India e Cina, vuole dire che l’Arabia Saudita dovrà fare un passo indietro in quei mercati, ma che troverà probabilmente più domanda altrove, ad esempio in Europa. Un complicato risiko petrolifero ancora in corso, ma che prima o poi – calcolatrice alla mano – proclamerà vinti e vincitori.

I segnali di questo risiko a volte emergono all’improvviso come la punta di un iceberg. Come quando l’azionista saudita Saudi National Bank ha mandato in crisi Credit Suisse negandole un’iniezione di liquidità, facendo tremare le Piazze finanziarie di tutto il mondo, con un effetto domino che è arrivato fino a Berlino, dove a traballare è stata Deutsche Bank. Come non dare un significato politico alla decisione della banca saudita controllata dal potente principe ereditario saudita Moammed bin Salman, da sempre avversario del presidente Usa Joe Biden e amico di Putin?

Oppure come quando Putin e il suo omologo cinese Xi Jinping hanno firmato un accordo bilaterale dove hanno messo per iscritto che useranno monete diverse dal dollaro per i loro scambi commerciali, in primo luogo quelli energetici, e favoriranno la dedollarizzazione dei paesi BRICS, anche prendendo in considerazione misteriose “nuove tecnologie”. Mosse che confermano quello che il Financial Times scriveva già in gennaio scorso, facendo riferimento agli incontri tra Xi e i leader dei paesi del Golfo Persico, durante i quali si è discussa la possibilità di pagare i barili sauditi con la moneta cinese anziché quella americana. Ovvero la fine del “petroldollaro” e l’avvento del “petroyuan”, che per ora incontra come unico ostacolo l’ancoraggio della moneta saudita al biglietto verde (1 dollaro equivale sempre a 3,5 riyal). E che avrà senso fino a quando il dollaro e il sistema bancario e finanziario ad esso collegato resteranno i più affidabili, equi e trasparenti del pianeta.