Messo in archivio il 2022 – l’anno meno piovoso di sempre – ecco che già a marzo ci sono le prime avvisaglie di una probabile replica nel 2023. Se il buon giorno si vede dal mattino, anche quest’anno ci sarà da soffrire. In Italia, l’agricoltura nel 2022 ha subito un calo della produzione del 10%, con punte del -45% per il mais e i foraggi e del 30% per il riso (fonte: Coldiretti). La produzione idroelettrica, invece, è passata da circa 46,9 TWh del 2021 a 29,7 TWh del 2022 (-36,7%, fonte: Terna).
Per il servizio idrico integrato (SII), l’esperienza dell’anno scorso ci dice peraltro che, tutto sommato, nonostante si sia temuto il peggio, il sistema in generale ha tenuto. In ben 1.703 comuni sono stati segnalati livelli di criticità che per 1.132 hanno raggiunto il livello 3, con conseguente necessità di approntare sistemi di approvvigionamento di emergenza. Nonostante ciò, i disagi sono stati limitati. Qualche ordinanza di divieto di utilizzo dell’acqua outdoor (lavaggio auto, irrigazione orti e giardini), qualche autobotte per rifornire i comuni più isolati, appelli alla popolazione a limitare gli usi non necessari. Ma nessuno è rimasto a secco.
La popolazione ha risposto in modo disciplinato, contenendo i consumi in modo anche significativo; benché non si possa generalizzare, è un chiaro indizio che siamo abituati a largheggiare. Non per nulla il nostro consumo pro-capite è il più alto d’Europa: con un po’ di attenzione e senza particolari rinunce, lo spazio per ridurlo c’è. Sarebbe tuttavia errato trarre da questa esperienza positiva la conclusione che, in fondo, non c’è da preoccuparsi. Il ripetersi di eventi un tempo ritenuti eccezionali ogni pochi anni suggerisce, infatti, che si tratta di un fenomeno sempre più endemico e inevitabile per effetto dei cambiamenti climatici. Se non è il caso di drammatizzare, è però il caso di farsi trovare pronti. L’Italia non sta certo diventando simile alla California o ad Israele; certo però che il nostro modello di approvvigionamento idrico, favorito dal clima temperato e soprattutto dalle nostre montagne, si rivela vulnerabile. Le reti italiane sono infatti frammentate, assai poco interconnesse, per lo più alimentate da risorse locali (sorgenti, falde) che possono andare in crisi. Se questa è – anche – una delle ragioni per cui l’acqua in Italia costa così poco, è però necessario adattare il sistema per renderlo più flessibile e resiliente.
Utilitalia ha illustrato recentemente la strategia che le aziende ritengono necessario intraprendere. Le misure riguardano la gestione della risorsa, le fonti di approvvigionamento, la gestione del servizio e la governance.
Nel primo profilo rientrano la realizzazione di invasi, ma anche la ricarica delle falde, soprattutto al fine di contrastare l’avanzata del cuneo salino. Più che grandi invasi – del genere di Ridracoli (Romagna) o del Bilancino (Firenze) – si tratta in genere di piccoli accumuli, soprattutto al servizio delle reti isolate che caratterizzano un territorio accidentato e prevalentemente montuoso e collinare, come quello italiano.
La ricarica controllata delle falde, dal canto suo, potrebbe consentire di trattenere ingenti quantità di acqua sovrabbondante nei mesi piovosi – soprattutto l’autunno – altrimenti destinata a finire in mare. Già oggi le “perdite” delle reti irrigue, specie al Nord, danno un contributo non irrilevante, tuttavia non programmato e non necessariamente localizzato dove ce ne sarebbe più bisogno – ad esempio per contrastare la risalita del cuneo salino nelle zone costiere. Molti studi mostrano che si tratta di un potenziale enorme e ancora poco utilizzato. Esso potrebbe essere ulteriormente favorito dalla diffusione di sistemi di raccolta e riuso delle acque piovane, creazione di zone umide in prossimità delle aree urbane, interventi per ridurre l’impermeabilizzazione del terreno, a causa del quale il deflusso delle acque risulta accelerato – e i fenomeni meteorici estremi, a loro volta, causano ingenti danni quando piove troppo.
Nella seconda categoria rientrano un più sistematico ricorso alla dissalazione e il riuso delle acque depurate e delle stesse acque piovane.
La prima è largamente impiegata in tutto il mondo (si pensi alla California, alla Spagna, alla Grecia), ma in Italia ha avuto ancora un impiego limitato. La tecnologia oggi consente costi di produzione relativamente limitati – intorno ai 50 cent. € al m3 e impatti ambientali contenuti se gestita in modo ottimale; ma soprattutto, a differenza degli invasi, presenta costi soprattutto variabili (l’energia necessaria per i processi di osmosi), cosa che la rende più adatta a gestire picchi temporanei di scarsità. E benché in Italia sia raramente il caso, questo potrebbe essere meno vero nelle aree costiere con elevata domanda turistica o nelle isole.
Quanto alla seconda, oggi in Italia solo il 5% degli scarichi trova un riutilizzo in agricoltura. E guardando meglio, si scopre che, per la quasi totalità, questi si concentrano nell’area milanese, dove le contingenze (l’impossibilità di scaricare direttamente nel Lambro, troppo piccolo per sopportare il carico della metropoli) hanno portato all’obbligo per il sistema di depurazione di scaricare nei canali irrigui, raggiungendo i livelli di abbattimento necessari, a spese però della popolazione civile. Altrove, invece, si dibatte ancora se il costo aggiuntivo necessario per raggiungere i severi standard di qualità richiesti all’acqua irrigua li debbano pagare gli utenti del SII o gli agricoltori, con il risultato che questa opportunità rimane ancora largamente inutilizzata per larga parte dei 9 miliardi di m3 scaricati dai depuratori. Per avere un’idea, si consideri che l’agricoltura complessivamente ne richiede 20 miliardi di m3 a livello nazionale – certo, oltre a depurare gli scarichi occorre anche che le acque reflue vengano poi sollevate fino a dove l’agricoltura potrebbe impiegarle, cosa non sempre possibile a costi ragionevoli.
Il riuso delle acque meteoriche, d’altro canto, rappresenta un altro potenziale sottoutilizzato, così come sono ancora assai poco diffuse le reti duali – capaci ad esempio di riciclare le acque utilizzate nel ciclo domestico per destinarle ai WC o all’irrigazione dei giardini.
Una terza categoria di interventi riguarda soprattutto la rete acquedottistica: interconnessione tra sistemi, distrettualizzazione, digitalizzazione. Grazie ai programmi orientati dalla regolazione della qualità tecnica di ARERA, e finanziati soprattutto dalle tariffe, molti di questi interventi sono in atto e mirano alla riduzione delle perdite di rete, con risultati che sembrano già significativi dove sono in atto da più tempo.
Ciò rende ancora più evidente la necessità di accelerare la messa a regime del sistema di gestione, specie in quelle aree del Paese in cui non si sono ancora create le condizioni per una gestione industriale.
Più in generale, è forse anche il caso di riformare la governance – il sistema di regole che disciplinano l’uso dell’acqua, stabiliscono le priorità di accesso e i diritti degli utilizzatori. Oggi, per dire, le Autorità di distretto – gli organi competenti secondo la nostra legislazione – non dispongono di strumenti efficaci per obbligare il razionamento della risorsa, dovendo per lo più ricorrere ad accordi volontari, che peraltro hanno consentito di limitare notevolmente i danni in occasione delle siccità più recenti, soprattutto con riferimento all’agricoltura e all’uso energetico. Va detto che oggi disponiamo di sistemi di pre-allerta e monitoraggio in grado di prevedere con largo anticipo le situazioni di crisi; ma ancora risulta difficile tradurre queste informazioni in strumenti operativi, proprio perché il sistema è troppo prigioniero di diritti acquisiti e situazioni di fatto – oltre ad essere, come detto, estremamente rigido sotto il profilo strutturale.
La siccità si combatte soprattutto con la capacità di destinare la risorsa agli usi socialmente più meritevoli, sottraendola a quelli che invece ne traggono minore beneficio. Non si tratta di espandere l’offerta a prescindere, insomma, ma di consentire un migliore equilibrio tra domanda e offerta, atteso che anche per la prima esistono consistenti margini di efficientamento.