Viviamo in un Paese bello e ricco come pochi altri, in cui è possibile passare anni a girare fra città e borghi unici al mondo. Certo, abbiamo anche quartieri degradati e cittadine cresciute con la speculazione edilizia, ma il nostro parco immobiliare merita certo attenzione e cura. Del resto negli edifici mangiamo, lavoriamo, socializziamo, creiamo, produciamo, amoreggiamo, litighiamo, dormiamo… insomma viviamo. La maggior parte di noi, tagliata fuori dalla natura salvo qualche sporadica vacanza, passa buona parte della sua vita in questi ambienti. Sarebbe dunque logico cercare di renderli il più possibile confortevoli, sicuri, resistenti, accoglienti e sostenibili e dedicare il nostro tempo a trovare il modo di tradurre questo in realtà. Possibilmente nell’ambito di un rinascimento urbano dei nostri centri.
Purtroppo, però, non è di questo che parliamo. Ma di aspetti secondari, in genere dopo aver perso di vista l’obiettivo generale. Prendiamo due dibattiti pubblici recenti in tema di edilizia. Il primo è quello relativo alla proposta di direttiva europea sulle prestazioni energetiche degli edifici. L’unico tema di cui si è discusso ampiamente è il possibile obbligo di portare entro il 2033 la classe energetica media degli edifici residenziali dei Paesi membri dell’Unione europea in classe D (peraltro secondo una classificazione della certificazione energetica da rivedere rispetto a quelle attualmente in vigore nei vari Stati, quindi con spazi di flessibilità non trascurabili). Un dibattito acceso – in cui si è parlato dell’impossibilità, secondo alcuni, e della necessità, secondo altri, di portare tutti i nostri immobili nell’attuale classe D (opzione oggettivamente impossibile), che però non è quello che chiede la proposta di direttiva – e soprattutto vano, visti gli effetti. Se sia utile riqualificare i nostri edifici e se la proposta di direttiva possa creare le condizioni per farlo al meglio, invece, è stato completamente trascurato.
L’altro tema è il taglio della cessione del credito, anche se poi sui media si discute del superbonus (che invece non è stato toccato) o di strane alchimie fra le due misure. Che il bonus facciate e il mix superbonus più cessione/sconto in fattura senza correttivi avrebbero creato un disastro era facilmente prevedibile e, come già accaduto negli ultimi venti anni con conto energia fotovoltaico e certificati bianchi, per restare nel nostro settore, passeremo un po’ di anni a leccarci le ferite (solo questa volta abbiamo voluto strafare con l’entità dell’incentivo erogato, quindi uscirne sarà più doloroso). Al contrario di quanto fatto con gli altri due schemi, per i quali la medicina è stata molto peggio del male in termini di effetti di mercato, servirebbe un dialogo costruttivo fra le parti per trovare la via più sostenibile per mantenere un sistema di detrazioni efficace, che premi le soluzioni più funzionali e utili, e un’alternativa gestibile alla cessione del credito. Peccato, perché si sarebbe potuto facilmente fare meglio con un po’ di buonsenso, introducendo limitazioni in grado di creare una domanda di mercato adeguata all’offerta di ristrutturazioni (e non di due ordini di grandezza maggiore) e di rendere gestibili cessione del credito e sconto in fattura, strumenti molto utili per il settore. Anche in questo caso, sfortunatamente, il dibattito è fra chi vuole affossare tutto e chi vorrebbe andare avanti come se nulla fosse, non su come rivedere le detrazioni in modo che siano in grado di alimentare le riqualificazioni in modo efficace nei prossimi anni.
Ma torniamo all’obiettivo generale, ossia come migliorare i nostri immobili e, soprattutto, perché. Che sia utile l’ho detto all’inizio. Ci passiamo la nostra vita dentro, per cui se li miglioriamo stiamo meglio, produciamo di più, ci ammaliamo di meno e non rischiamo di vedere crollare tutto al primo terremoto. Conviene? La risposta è meno scontata. Se ci limitiamo a una semplice analisi economica in cui mettiamo il costo degli interventi da una parte e i ricavi da minore costo dell’energia dall’altra la risposta è sì, ma non così tanto: gli indicatori economici come tempo di ritorno, tasso interno di rendimento o valore attuale netto non sono certo entusiasmanti anche con gli incentivi (superbonus a parte), figuriamoci senza.
Conviene però considerare alcuni aspetti. Il primo è che se si interviene quando l’edificio necessita comunque di una riqualificazione della facciata o degli impianti energetici la situazione migliora decisamente, visto che fra le spese, al fine di valutare la convenienza della ricerca di una migliore prestazione energetica o di altro genere, si possono mettere solo gli extra-costi rispetto a una riqualificazione ordinaria.
Il secondo è che occorre tenere conto degli altri benefici, purché la riqualificazione li vada a produrre. Ad esempio, una riqualificazione sismica porta un beneficio economico molto consistente, per quanto non banale da valutare. Si può però a tal fine considerare una parte del costo di una polizza di copertura sismica come riferimento di partenza da conteggiare in un flusso di cassa corretto. Allo stesso modo, gli altri benefici indotti da una riqualificazione ben fatta producono effetti positivi su chi ci abita o ci lavora, per quanto non sia facile quantificarne la valenza economica.
Inoltre, se gli edifici diventano più efficienti (non dimentichiamo che parliamo di circa il 40% dei consumi nazionali) e in grado di produrre in loco parte dell’energia necessaria all’uso dei vari servizi energetici, si ottengono evidentemente benefici sul fronte della sicurezza energetica – minore domanda significa minori approvvigionamenti dall’estero e minore necessità di installazione di nuovi impianti a fonti rinnovabili – e della mitigazione dei cambiamenti climatici, che presenteranno un conto sempre più alto.
Last but not least, si mette in moto una filiera consistente. A tale proposito, secondo le stime del Censis (studio “Ecobonus e Superbonus per la transizione energetica del Paese”), il superbonus in due anni ha attivato oltre 900 mila addetti e i benefici diretti e indiretti economici indotti dalla misura sono tali da ridurre i costi per lo stato a circa il 30% del valore delle detrazioni riconosciute.
Ritengo che non si possa far altro che ribadire il concetto seguente: intervenire sugli edifici mettendo insieme riqualificazione energetica e sismica, adottando le tecnologie esistenti per migliorare comfort, sicurezza e qualità dell’aria non possa che essere conveniente economicamente. Sarebbe sicuramente molto costoso, ma, per quanto detto sopra, un sistema incentivante più efficiente ed efficace potrebbe farci conseguire risultati sostenibili anche sul fronte del debito pubblico, soprattutto se si metteranno insieme le finanze pubbliche con quelle private e si stimoleranno le buone pratiche.
A mio avviso sarebbe dunque utile cominciare a ragionare su come riuscire a favorire al massimo la riqualificazione del nostro parco immobiliare e su come rivedere gli strumenti di supporto esistenti in modo da accelerare questo mercato. Il problema non è pagare l’intervento ai cittadini o alle imprese, ma ridurne il consistente esborso iniziale, o – se non si troverà il modo di alimentare la cessione del credito – provare a introdurre un meccanismo pensato per concedere mutui a tasso agevolato per le ristrutturazioni edilizie. Il problema, infatti, non sono solo i cosiddetti incapienti (quelli veri, non i troppi che evadono), ma una buona fetta di classe media che fa fatica a investire le cifre richieste e non ha voglia, o possibilità, di imbarcarsi in un finanziamento oneroso.
Non bisogna poi dimenticare che sarà fondamentale supportare lo sviluppo della filiera, sia in termini di industrializzazione dei componenti e dei cantieri, sia nell’ottica di garantire la disponibilità delle tecnologie, la logistica per portarle dove serve, e le persone necessarie per progettare, installare, mantenere, etc. Da questo punto di vista trovo incredibile che la Commissione europea continui ad alzare l’asticella degli obiettivi, ma non abbia scritto una riga sulla necessità di rafforzare i legami commerciali con i Paesi extra-UE e l’industria nei Paesi membri. Questo sì, rischia di rendere gli obiettivi irraggiungibili.