L'invasione dell'Ucraina da parte della Russia, nel febbraio 2022, ha determinato sconvolgimenti profondi nel sistema energetico globale e ha accresciuto la vulnerabilità dell'Europa di fronte all'interruzione delle forniture di gas. Il tutto va letto in un processo di trasformazione ormai decennale che vede da un lato, un percorso verso la decarbonizzazione e un utilizzo via via più marcato delle fonti rinnovabili ma che, dall’altro, ha determinato un maggior ricorso al gas, visto dai governi e dagli analisti energetici come una fonte ponte sul medio termine tra l'era degli idrocarburi e quella delle fonti green. Contemporaneamente,  però, l'obiettivo di lungo termine di raggiungere economie net zero in Europa ha indebolito la volontà di investire denaro nel comparto gas, soprattutto nell’upstream. Gli investitori hanno ritenuto rischioso allocare capitali in una risorsa che in pochi decenni dovrebbe diventare obsoleta. In altre parole, negli ultimi decenni, nonostante l'aumento del consumo di gas, l'Europa non è riuscita ad aumentare  la produzione di gas (al contrario fortemente ridottasi) e a ridurre la sua forte dipendenza dalle forniture russe.

Inoltre, il tentativo del Vecchio Continente di essere leader globale in materia di cambiamento climatico e i suoi sforzi per convincere altri paesi a intraprendere politiche climatiche più stringenti hanno spinto le economie asiatiche, in rapida crescita, ad abbandonare il carbone e sostituirlo con il gas naturale. La domanda asiatica di gas è cresciuta così rapidamente, + 50% nell'ultimo decennio, in ragione soprattutto di consumi più che triplicati in Cina, che il mercato del gas naturale liquefatto (GNL) fatica a soddisfare. Di conseguenza, paesi come Cina e India sono ora rivali per le stesse forniture di GNL provenienti da Stati Uniti e Qatar: forniture su cui l'Europa, ora più che mai, fa affidamento.

Una politica di scarsi investimenti nel gas naturale e in altri combustibili fossili è la ragione alla base dell'aumento dei prezzi dell'energia in Europa, problematica che si aggiunge alla pressione inflazionistica e all'instabilità socio-economica e politica. Alcuni analisti sostengono che l'Europa si sia allontanata troppo rapidamente dai combustibili fossili e soprattutto prima di garantire che sufficienti fonti rinnovabili potessero colmare il loro ammanco in caso di emergenza. Sorpresa a metà strada in una transizione che dovrebbe richiedere decenni, l'Europa sta ora lottando per trovare carbone e gas da bruciare nei suoi impianti tradizionali. Da qui muove la scelta della Commissione Europea di far rientrare nella tassonomia europea degli investimenti verdi alcuni impianti nucleari e a gas naturale. Secondo la principale istituzione europea, il passaggio alle energie rinnovabili è essenziale per raggiungere la neutralità climatica, tuttavia è anche necessario disporre di fonti non intermittenti che consentano la transizione verso l'azzeramento delle emissioni nette di gas serra. Una scelta che divide: a chi afferma che l'energia nucleare e il gas naturale devono essere supportati come " fonti ponte" fino a quando le tecnologie rinnovabili - come il solare, l'eolico o eventualmente l'idrogeno - non possono generare energia sufficiente per sostituire i combustibili fossili, si contrappongono i critici, secondo cui promuovere fonti fossili è dannoso per l'ambiente.

Questo per sottolineare come la pressione sui mercati energetici globali fosse precedente all'invasione russa dell'Ucraina e come quest’ultima sia stata esacerbata dalle azioni di Mosca che hanno trasformato una rapida ripresa economica dalla pandemia - che ha messo a dura prova ogni tipo di catena di approvvigionamento globale, inclusa quella energetica - in un vero e proprio tumulto energetico. La Russia è stata per anni di gran lunga il più grande esportatore mondiale di combustibili fossili: ruolo venuto a seguito della scelta di Mosca di ridurre i flussi di gas all'Europa e delle sanzioni europee sulle importazioni di petrolio e carbone. Una scelta drastica che ha reciso una delle principali arterie del commercio energetico globale. Questo ha generato un vero e proprio stravolgimento esponendo i consumatori a bollette energetiche più elevate e carenze di materia prima. I prezzi per gli acquisti spot di gas naturale hanno raggiunto livelli mai visti in precedenza, superando anche la soglia equivalente a 250 dollari al barile di petrolio. Una situazione delicata che ha costretto l'Europa a negoziare, in alcuni casi anche con successo, accordi con altri produttori come l'Azerbaigian, il Qatar e gli Stati Uniti.

Se guardiamo in prospettiva, ci vorrà del tempo per comprendere appieno l'impatto a breve e lungo termine dell'invasione dell'Ucraina da parte della Russia sui mercati energetici europei e globali. Ma un dato è certo: la scelta della Russia ne ha messo in discussione la sua credibilità come fornitore affidabile di petrolio e gas. Secondo l’AIE, la percentuale di gas commerciato a livello internazionale dalla Russia scenderà dal 30% del 2021 al 15% entro il 2030. I consumatori europei hanno già intrapreso una politica di diversificazione delle forniture oltre che rafforzato quelle volte al raggiungimento di zero emissioni nette entro il 2050. La chiave di volta, tuttavia, è evitare che la spesa per le infrastrutture necessarie a ridurre le emissioni non si trasformi in stranded cost. La crisi del gas naturale dovrebbe essere il motore di una transizione energetica, non un suo impedimento.

La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di RiEnergia. La versione inglese di questo articolo è disponibile qui.