A partire dalla pandemia da Covid-19 le supply chain sono state interessate da eventi dirompenti che hanno messo a nudo le tante fragilità del modello tradizionale. Da qui la necessità di cambiare un modello di gestione che fino a quel momento aveva anche funzionato. Fino a qualche anno fa, infatti, la supply chain era gestita sotto il classico trade off livello di servizio/ottimizzazione del magazzino e dei costi. Tutte le scelte, sia quelle di natura strategica che operativa delle imprese erano legate a ottimizzare questa equazione, che poneva molta attenzione all’efficienza.
Con la diffusione del Covid prima e l’avvio di questo nuovo ciclo di crisi poi, questo trade off ha iniziato a scricchiolare e il mondo delle imprese ha imparato a proprie spese che in questa equazione andava inserito un nuovo elemento: la resilienza, intesa come capacità di rispondere alle situazioni critiche e di disruption esterne con velocità sufficiente per non perdere opportunità sul mercato. Di fronte a questi cambiamenti le aziende hanno dovuto reagire, trovandosi di fronte a situazioni nuove come scarsità di prodotti e di materie. Molte aziende lo hanno fatto con attività di pompieraggio, costituzione di task force che potessero affrontare questa carenza. Man mano però, ci si sta rendendo conto che lavorare solo in un’ottica emergenziale non è sostenibile nel lungo termine, se non altro perché rischia di creare una forte pressione sull’organizzazione che si è trovata un po' sguarnita di processi e strumenti. Quindi le imprese sono costrette a pensare in maniera più strutturata a come gestire i rischi e, ed è questo è l’aspetto pivotale, a cambiare il modo di ragionare non solo in termini di modello operativo ma anche di modello culturale insito nelle risorse. La gestione del rischio deve essere calata all’interno dell’organizzazione, sia in termini di analisi delle vulnerabilità che esistono all’interno della catena del valore sia in termini di definizione di una strategia per la resilienza.
Ovviamente si tratta di una sfida molto difficile e su cui ancora c’è molto da lavorare, come dimostra uno studio condotto da Kearney, quale partner del World Economic Forum che ha visti coinvolti 400 executives a livello mondiale: studio che giunge al risultato che solo il 12% è risultato leader della supply chain resilience. Il lavoro mette in luce un dato importante: la strategia della supply chain resilience dei leader si basa su 8 leve, facenti parte di un resilience compass, una sorta di bussola che consente di definire con sicurezza strategie sostenibili per navigare nell'incertezza e costruire vantaggi a lungo termine. Si tratta di leve di diverso tipo, alcune più strategiche legate alla domanda per esempio: 1) una maggiore prossimità geografica e rispondente ai bisogni del cliente; 2) un maggiore focus sulla disponibilità del prodotto attraverso una gestione attiva e una semplificazione del portafoglio prodotti. A queste leve si contrappongono leve più legate al mondo dell’offerta che riguardano la ricerca di molteplici fonti di approvvigionamento, la pianificazione avanzata intesa come capacità di percepire rapidamente i cambiamenti nella domanda e nell'offerta e di adattare il modello operativo di conseguenza. Ogni azienda a suo modo ha messo in campo tutte queste leve, focalizzandosi, però, più su quelle più rispondenti al DNA dell’impresa, il che spiega anche la creazione di profili di leadership diversi fra le aziende eccellenti.
Alle sfide citate, pandemia e nuovo contesto geopolitico, vanno aggiunti due ulteriori elementi di distruption: l’avvento delle nuove tecnologie e la scarsità di materie prime. Quanto alle tecnologie, anche se nella percezione comune sono viste più come elementi di continuità nel quadro macroeconomico e di gestione delle imprese, in realtà costituiscono dei veri elementi di rottura. Piattaforma digitale, intelligenza artificiale, IoT hanno un potenziale per ridefinire le catene del valore globali e lo stanno facendo. Inoltre, la tecnologia può costituire un elemento fondamentale per lavorare sulla strategia di resilienza: grazie all’innovazione tecnologica è possibile lavorare per una connessione dei partner end-to-end in un unico ecosistema digitale per garantire affidabilità e velocità di reazione. La tecnologia funge da volano per digitalizzare e rendere il più possibile flessibile gli impianti produttivi, automatizzare i processi transazionali che consentono di liberare risorse per focalizzarsi più su attività di tipo strategico rispetto a quella operativa, mentre l’utilizzo massiccio degli analytics contribuisce a prendere decisioni strategiche informate.
Relativamente, invece, alla carenza di materie prime e al conseguente aumento dei prezzi, merita rilevare come questo abbia esercitato una pressione forte sui margini di alcuni settori, rendendo necessario per le aziende strutturarsi per gestire questa criticità, cercando da un lato, di lavorare sui dati per avere una veloce traduzione di quelli che sono gli sviluppi sul mercato in azioni di pricing, e dall’altro, lavorare sui processi di forecasting per migliorare l’agilità in un ambiente con alta inflazione. Serve, inoltre lavorare su metodologie di negoziazione e meccanismi contrattuali e infine sul risk management per gestire i rischi, sia da un punto di vista degli acquisti che da quello della domanda finale.
Concludendo e guardando ad un orizzonte più ampio e in un’ottica di governare bene il cambiamento serve innanzitutto una maggiore presa di coscienza da parte delle imprese sulle tante vulnerabilità che esistono all’interno della catena del valore, non solo sul fronte dei fornitori. Occorrerebbe spostare quindi l’attenzione dal supplier al supply, pensare in maniera più olistica e non solo guardarlo attraverso la lente della fornitura.
In secondo, luogo serve una maggiore attenzione alla catena del rischio. Tante aziende hanno al loro interno delle strutture che si occupano di gestire il rischio, ma ancora poche ancorano la gestione dei rischi alla ridefinizione del modello opreativo. Questo non deve essere un esercizio che si svolge solo una volta, ma piuttosto deve diventare un modo di lavorare che si trasferisce sull’organizzazione e processi, e poi culturalmente sulle persone.
Infine, bisogna puntare sull’innovazione indispensabile per creare adattabilità e flessibilità dei processi. Chi prima del Covid aveva investito in R&D è risultato più forte e strutturato di altri.
In questo contesto, un ruolo chiave deve essere giocato dal sistema paese che deve impostare tutti quegli abilitatori che consentono alle aziende di lavorare in maniera costruttiva, come la creazione di standard, il supporto a imprese e forniture anche di media dimensione per investire su pianificazione, collaborazione e agilità.