Un malcontento generale sta pervadendo la Francia da alcune settimane. La mobilitazione inizia nelle raffinerie: gli scioperi nel comparto mettono in ginocchio il paese a corto di carburante e con file chilometriche in tutti i distributori di benzina. Ma quel che è peggio è che il malcontento si sta estendendo ad altri settori professionali (centrali nucleari, trasporti) facendo tremare il governo Macron. Quale è la ragione alla base delle proteste? La risposta è chiara: molti francesi vedono il proprio potere d’acquisto ridursi a causa di un aumento generalizzato dei costi a cui non si riesce a far fronte, soprattutto nell’energia. Un’insoddisfazione che diventa ancora più insostenibile nella patria del nucleare costretta a comprare gas, spesso prodotto con la tecnica della fratturazione idraulica e a prezzi esorbitanti (legge di mercato!), dagli Stati Uniti e/o dall’Algeria o a riaccendere nuovamente le inquinanti centrali a carbone.

E proprio il tema della shale gas sta facendo discutere tanto e per una serie di ragioni. La Francia detiene nel suo sottosuolo una gigantesca riserva di gas non convenzionale. Le stime più accreditate oggi indicano oltre 5.000 miliardi di mc (ovvero 4,3 mld di tep pari ad almeno 25 anni del consumo di energia primaria del paese; addirittura 40 anni se si puntasse ad una politica drastica di risparmio energetico!). Si tratta, però, di un potenziale che rischia di rimanere inesplorato a causa dell’opposizione dei Verdi che preferiscono importare shale gas americano che viene estratto con tecniche inquinanti e dispendiose in termini energetici (ne esistono altre meno invasive) e che per essere trasportato necessita di navi alimentate a combustibili fossili. Il che si traduce in un impatto ambientale estremamente negativo per il pianeta.

Ma non è finita qui: una parte di questo gas che la Francia acquista dagli USA viene in seguito venduto ai vicini tedeschi in cambio di elettricità prodotta in Germania dalle centrali a lignite! Centrali che, è risaputo, sono causa di morti premature anche in Francia, in quanto i venti di nord-est diffondono l’inquinamento generato dagli impianti carboniferi tedeschi in tutta la parte settentrionale della Francia. Questa tesi è stata dimostrata da uno studio commissionato da Greenpeace nell'aprile 2013, sull'inquinamento delle centrali a carbone, i cui risultati sono stati riportati sulla rivista tedesca “Der Spiegel”. Lo studio, che analizza l’attività di 67 tra le maggiori centrali a carbone tedesche su un totale di 140 attive nel 2010, stima che in quell’anno morirono prematuramente 3.100 persone a causa delle emissioni di CO2 e delle polveri sottili emanate da questo tipo di impianti: sostanze che generano malattie respiratorie, cancro ai polmoni e infarto del miocardio su scala europea. Vi è poi un secondo studio citato dalla stessa rivista "Der Spiegel", secondo cui l'inquinamento legato alla combustione del carbone (lignite, carbon fossile) costerebbe ogni anno all'Unione europea 43 miliardi di euro in spese sanitarie.

Eppure, nonostante questi dati, la Francia preferisce chiudere i due reattori di Fessenheim, in grado di funzionare ancora per almeno un decennio, rinunciando a quasi 1.800 MW di produzione elettrica. Una decisione che implica giocoforza il mantenimento in attività delle centrali a carbone, che al contrario andavano chiuse. L’impianto a carbone di Saint Avold, infatti, ha visto la sua produzione moltiplicarsi di 8 volte tra il 2020 e il 2022, con un impatto significativo in termini di inquinamento.

Per tutti questi motivi, non può stupire il disagio dei francesi che vivono la dicotomia di abitare nel paese che ha ospitato la COP 21 e l'Accordo di Parigi e nello stesso tempo in quello in cui le scelte in materia di politica energetica sono poco sostenibili. Stupiamoci piuttosto del perché i leader politici siano così influenzati da un ristretto gruppo di Verdi che ambisce chiaramente a cancellare la scelta fatta tanti anni fa di puntare sul nucleare, fonte attorno a cui gravita tanta disinformazione. Da decenni la Francia assiste a campagne per la fine del nucleare, che, ad oggi, rimane la fonte di generazione elettrica meno inquinante (3,4-3,7 gCO2/kWh vs 1000 gCO2/kWh del carbone). Rischiamo quindi di fare passi indietro, come testimoniano le parole del CEO di EDF secondo cui il contesto non è più favorevole all'assunzione di ingegneri e tecnici specializzati in ambito nucleare se non per lo smantellamento degli impianti.

Vi è poi un’altra criticità che contraddistingue il sistema francese. Lo Stato ha obbligato EDF a vendere, tra il 1° aprile e il 31 dicembre 2022, 120 milioni di MWh (un terzo della sua produzione) ai suoi concorrenti ad un prezzo di 46,2 €/MWh, il che significa che EDF deve acquistare energia elettrica sul mercato spot a qualsiasi prezzo per venderla al prezzo imposto dallo Stato. Per fare solo un esempio, il 4 aprile 2022 alle ore 8:00 il MWh, su questo mercato, ha raggiunto i 2.987,78 euro! Questa scelta dettata dallo stato azionista ha delle implicazioni economiche negative molto pesanti per EDF: una perdita di 10 miliardi di euro nonostante un forte aumento della clientela e a fronte di profitti record raggiunti dagli altri principali fornitori di elettricità in Francia. E tutto questo per cercare di proteggere, senza tanto successo, i consumatori domestici – con l’attuazione del famoso scudo tariffario stimato in 45 miliardi di euro nel 2023 - ma mettendo a rischio le aziende che pagano l'energia a un prezzo esorbitante, costringendole a chiudere e mettere i propri lavoratori in cassa integrazione.

È questo, quindi, il quadro di riferimento entro cui si inserisce la mobilitazione di questi giorni: caro energia, il costo della vita che continua a salire, la disoccupazione che minaccia molte famiglie. Eppure, una soluzione alla crisi ci sarebbe, ma è curioso notare come i politici francesi fingano di non vederla: bisognerebbe consentire ad EDF di mantenere la sua produzione di elettricità vendendola ad un prezzo base a tutti i suoi clienti (e non ai suoi concorrenti!) e bisognerebbe sfruttare lo shale gas nazionale i cui costi sarebbero molto contenuti. Perché questo non si fa? I francesi se lo chiedono e quindi non meravigliamoci se sono di cattivo umore e inclini a scioperare! 

Professore Onorario del Conservatoire National des Arts et Métiers (Parigi) e Direttore della Société Nationale des Sciences Naturelles et Mathématiques (Cherbourg). Coautore insieme a Yves de Saint Jacob del libro «Si puo uscire dal nucleare ?» (Ed. Compositori ; coll. Il Faro ; Gennaio 2012)