Dalla crisi climatica alla crisi energetica: problemi diversi ma nello stesso tempo strettamente interconnessi. Se le scelte del passato fossero state più lungimiranti e avessero puntato maggiormente su rinnovabili ed efficienza, oggi non pagheremmo così duramente le conseguenze di un contesto internazionale così delicato. Serve un cambio di marcia e serve in fretta, altrimenti a farne le spese è l’ambiente in cui viviamo, la nostra economia e il nostro tessuto sociale. Questo il principale messaggio che emerge dall’intervista fatta a Ermete Realacci, Presidente della Fondazione Symbola.
Oggi più di ieri, suonano come un grido all’azione le parole scritte nel Manifesto di Assisi: serve un’economia a misura d’uomo contro la pandemia e la crisi climatica, e ora si potrebbe aggiungere contro la crisi energetica.
Il Manifesto di Assisi presentato nel gennaio 2020 alla vigilia della pandemia ha un’impostazione che lo rende utile ad affrontare sia la pandemia che la crisi energetica. Non a caso la prima frase del Manifesto recita: “affrontare con coraggio la crisi climatica è necessario ma rappresenta una grande occasione per rendere la nostra economia e la nostra società più a misura d’uomo e più capace di futuro”. Il manifesto ha due caratteristiche principali. Innanzitutto, è scritto da soggetti molto diversi tra di loro: a sottoscriverlo furono sia esponenti importanti dell’economia ma anche la società, il mondo dei saperi, i movimenti e le associazioni, mentre i promotori erano la Fondazione Symbola e il Sacro Convento. Ad oggi è stato sottoscritto da oltre 4.300 persone ed è possibile sottoscriverlo qui. L’altro aspetto del Manifesto è cogliere le potenzialità del cambiamento necessario e lì il tema dell’energia è centrale: oggi risulta ancora più chiaro che se nei tempi passati avessimo accelerato sulle rinnovabili avremmo oggi un paese più indipendente, che paga di meno l’energia e che è più forte economicamente.
Economia circolare, efficienza e fonti rinnovabili. Facciamo il punto. Perché si concretizzi un modello di sviluppo diverso e migliore è necessario che l'azione dello Stato sia indirizzata verso una rapida e massiccia opera di semplificazione e sburocratizzazione. Quali sono i margini di miglioramento?
I margini di miglioramento sono grandi, ma ad intervenire non deve essere solo lo Stato. È compito di tutti dare un proprio contribuito, dalle imprese alla società, alle comunità. E questo perché, a differenza della Francia, dove, come ben detto dal sociologo francese Touraine qualche mese fa, lo Stato è nato prima della società, nel nostro Paese ciò non è avvenuto e lo Stato in qualche caso fa ancora fatica ad affermarsi, ma fenomeni vitali avvengono nell’economia, nei territori, nella società. Non a caso, come ricordava il Presidente Ciampi, la nostra Costituzione è l’unica al mondo, in cui nello stesso articolo, il 9 -uno più visionari e belli della nostra Carta Costituzionale- mette assieme la ricerca scientifica e tecnica con la difesa del patrimonio storico culturale, del paesaggio a cui poi si è aggiunta la tutela dell’ambiente. E l’articolo assegna il compito di valorizzare e tutelare questi beni comuni alla Repubblica e non allo Stato: la Repubblica siamo tutti. Per affrontare questa sfida l’Italia può contare su punti di forza, che muovono più dall’antropologia culturale e produttiva che contraddistingue il paese che non dalle scelte politiche e dalle norme.
Per capire questo concetto, si pensi, ad esempio che l’Italia è leader nell’economia circolare in Europa, dove per economia circolare non si intende solo raccolta differenziata urbana. I rifiuti urbani sono circa un quinto di quelli prodotti e in questo ambito la performance dell’Italia è sopra la media europea, ma con enormi differenze interne fra i vari territori. Ad esempio Milano al pari di Vienna vanta la raccolta differenziata più alta tra le città sopra il milione di abitanti, così come abbiamo punte di eccellenza in tanti Comuni non solo nel Nord e nel Centro ma anche al Sud. Abbiamo però anche punte di grande arretratezza. Se allarghiamo però l’analisi ai rifiuti legati ai cicli produttivi, i dati evidenziano come il nostro paese recupera una percentuale che è quasi doppia della media Europea e molto più alta della Germania. Lo riusciamo a fare perché, essendo un paese molto povero in termini di materie prime, nel corso dei secoli abbiamo usato quella fonte energetica rinnovabile e non inquinante che è l’intelligenza umana. E questo ci ha portato a costruire filiere più efficienti: gli stracci di Prato, le cartiere della Lucchesia e i rottami di Brescia che non sono figli di leggi o burocrazia ma di questa antropologia. Queste scelte ci fanno risparmiare oggi qualcosa come 23 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio all’anno. Possiamo fare anche di più.
Nei terreni invece, in cui la scelta della politica è più importante abbiamo spesso segnato il passo. Adesso è chiaro a tutti che più fonti rinnovabili garantirebbero maggiore indipendenza all’Italia. Eppure, ci siamo negli anni passati bloccati: oggi la quota delle rinnovabili nel mix elettrico è grossomodo rimasta la stessa (circa 1/3) di quella degli anni 2013-2014. Al contrario di noi, invece, altri paesi hanno accelerato. La Germania, ad esempio, nel 2005 era al 5% di fonti rinnovabili nella generazione elettrica. Oggi al 50%, punta all’80% entro il 2030 e 100% nel 2035. L’anno scorso l’Olanda, un paese grande un po' meno di Sicilia e Calabria messe assieme, e senza le stesse potenzialità in termini di energia solare, ha installato più di 3.000 MW di fotovoltaico, mentre l’Italia 800 MW. Abbiamo un problema…
Tutto questo per dire che lo Stato ha delle responsabilità, ma molto può anche la società. Eppure ancora oggi, se rimaniamo nel campo delle rinnovabili, esistono opposizioni forti contro queste tecnologie che non si spiegano e per cui sarebbe interessante aprire un dibattito culturale, mentre si compiono le scelte necessarie.
Fra qualche giorno verrà presentato il nuovo rapporto GreenItaly 2022 promosso da Symbola e Union Camera. Che ruolo ha la green economy per superare questo drammatico momento di crisi? Quali saranno i risvolti occupazionali sul territorio?
In materia di green economy, la tendenza è chiara ed è visibile nell’accelerazione nel numero di aziende che investono sul green e che avviano azioni concrete: non solo su fonti rinnovabili ed efficienze energetica ma nel recupero di materiali, innovazioni di processi e prodotto, riduzione nell’utilizzo di acqua e materie prime. Questa accelerazione si spiega non solo per una sensibilità che cresce, ma anche perché le imprese che fanno queste scelte sono quelle che hanno performance migliori, che crescono di più, che esportano di più e creano più posti di lavoro e maggiormente stabili. Contrariamente al mantra dei settori più arretrati dell’economia, ma anche della politica e dell’informazione - ovvero che bisogna investire sull’ambiente ma senza danneggiare l’economia - chi danneggia l’ambiente danneggia anche l’economia, l’impresa, il territorio e la comunità. Un esempio chiaro è la storia di ENEL, che negli anni ha cambiato le sue scelte e la sua mission e dopo il no della popolazione italiana al nucleare ha dato il via ad una svolta che l’ha resa leader a livello globale, divenendo la prima compagnia per potenza rinnovabile installata al mondo. Una storia che viaggia parallelamente alla situazione disastrosa di EDF nucleare in Francia. Questo cambiamento interessa trasversalmente, in misura varia oltre un terzo delle imprese italiane e il Rapporto Green Italy 2022 prodotto dalla Fondazione Symbola e Unioncamere lo confermerà: anche nei settori più hard ed energivori. Penso, ad esempio, a due acciaierie socie di Symbola. Feralpi, già prima di questa crisi energetica aveva investito 120 milioni di euro per produrre la propria energia con il fotovoltaico ed essere più sicura sui costi e sull’approvvigionamento. E Arvedi, la più grande acciaieria italiana, oltre ad essere molto innovativa sarà la prima grande acciaieria al mondo a neutralizzare le emissioni di CO2. Un orgoglio nazionale che la politica e l’informazione italiana quasi ignorano. Siamo purtroppo fatti così. Insomma, “essere buoni” conviene e l’ambiente è anche una polizza per il futuro.
Economia circolare, rinnovabili, ma anche efficienza energetica, quest’ultima strategica sia per la riduzione delle emissioni di CO2, sia per i risparmi che possono arrivare in termini di consumi energetici e diminuzione delle bollette. Cosa è stato fatto, ma quanto ancora si può fare?
In materia di efficienza energetica, molto è stato fatto dal sistema paese, pur in assenza di politiche dedicate. In Italia, infatti, l’efficienza nell’uso di energia e l’intervento nei cicli produttivi ha consentito il raggiungimento di buoni risultati. Per capirci, oggi un italiano emette meno CO2 di un cinese, che a sua volta emette meno della metà di un americano. Siamo, da questo punto di vista, nella parte più virtuosa dell’Europa. Vi sono però diversi ambiti in cui si può intervenire. Uno è quello dei trasporti, dove ancora vige la mentalità di cui parlavo prima, ovvero che non si deve danneggiare l’economia per tutelare l’ambiente. Si tratta però di una resistenza che rischia di danneggiare molto cittadini e imprese. L’auto elettrica, per quanto ancora abbia problemi tecnologici e normativi da affrontare, è oggi più efficiente e inquina di meno delle auto a combustione interna. L’AD di Renault, l’italiano Luca de Leo, ha, ad esempio, affermato che nel 2030 la casa francese venderà in Europa solo auto elettriche. Va da sé che nel 2029 un utente italiano non acquisterà un auto a combustione interna, tecnologia che andrà a morire, ma acquisterà un’auto elettrica, molto probabilmente non italiana. Per questo serve un maggior impegno in questo comparto e una maggiore mobilitazione di risorse anche verso un trasporto pubblico più pulito.
Così come molto deve essere fatto anche nel settore edilizio, visto che questo pesa per un terzo dei nostri consumi. Si è dibattuto tanto qualche anno fa di abolizione dell’IMU sulla prima casa, tassa che valeva allora circa 220-230 euro a famiglia, mentre si è trascurato del tutto il peso dei consumi energetici di un appartamento che in quegli anni si aggirava nell’intorno di 1.500 euro. Una politica lungimirante che avesse puntato a eliminare 1/3 di questi consumi, avrebbe garantito un risparmio molto maggiore dell’eliminazione dell’IMU, oltre che avrebbe determinato un vantaggio in termini di inquinamento e più occupazione. Agire sugli edifici, in particolare su quelli esistenti, è una delle cose più efficaci che possiamo fare per contrastare la crisi climatica e rendere le bollette più accettabili per le famiglie. Sono politiche che devono essere aiutate anche pubblicamente, sia con contributi che con una burocrazia non oppressiva ma efficiente. Se chiamiamo a raccolta le energie migliori del Paese siamo pronti ad affrontare le sfide che abbiamo davanti. Se lavoriamo insieme e non lasciamo solo nessuno, non lasciamo indietro nessuno. Perché non c'è nulla di sbagliato in Italia che non possa essere corretto con quanto di giusto c'è in Italia.