A partire dal 2016, il numero di operatori europei proprietari di centrali a carbone che hanno chiuso i loro impianti, o hanno annunciato piani di phase out al 2030, è salito a 171. E anche quest’anno, si sono aggiunti nuovi soggetti. A livello nazionale, diciassette paesi europei hanno smesso di bruciare carbone o si sono impegnati a farlo al più tardi entro il 2030 e nessun governo ha rinunciato a questa promessa.

A stonare in questo contesto straordinariamente positivo, è la decisione di alcuni paesi europei di riaccendere alcune (per fortuna poche) centrali a carbone o di massimizzarne la capacità di quelle attualmente operative. La scelta muove, in primis, dall’urgenza di ridurre il più possibile la dipendenza da Mosca e al tempo stesso di contribuire meno al finanziamento della guerra, inevitabile dovendo acquistare combustibili fossili dalla Russia. In secondo luogo, a spingere verso un maggior utilizzo del carbone è il ridotto apporto delle altre fonti, con il nucleare in calo a causa dell’indisponibilità del parco nucleare francese e l’idroelettrico penalizzato da un’estate particolarmente calda e siccitosa. Merita, però, rilevare come nei fatti, i giorni i cui è stato richiesto carbone aggiuntivo da bruciare nelle centrali siano stati pochi e questa commodities molto raramente ha contribuito a più di un quinto della produzione giornaliera di energia. Il che si spiega in ragione dell’aumento della produzione di elettricità da fonti rinnovabili.

Per quanto necessarie, però, queste misure di emergenza che vedono il carbone un alleato per sopperire all’ammanco di gas, sono comunque da condannare, ancor di più perché sono il risultato di una cattiva politica energetica e di scelte poco lungimiranti di governi e utilities in materia di rinnovabili.  La domanda ora è: impareranno dai loro errori e faranno maggiori investimenti in soluzioni di energia rinnovabile a lungo termine e risparmio energetico tali da rendere i propri sistemi energetici più economici, più sicuri e meno esposti alle scelte velleitarie dei paesi produttori, così come richiede la  stragrande maggioranza degli europei?

La risposta, per quanto non possa essere data per scontata, sembra poter essere positiva e vi sono segnali che puntano fortemente nella giusta direzione. Ad esempio, la più grande utility elettrica tedesca, RWE, ha recentemente dichiarato che uscirà dal carbone entro il 2030, otto anni prima di quanto precedentemente previsto, mentre il governo tedesco ha annunciato piani di sviluppo  per l'energia pulita che, al 2030, dovrebbe rappresentare l'80% del suo mix energetico, un aumento di 15 punti percentuali rispetto al precedente obiettivo che si fermava al 65%. Nel frattempo, il Portogallo ha totalmente escluso un ritorno al carbone, avendo chiuso il suo ultimo impianto nel 2021, mentre i Paesi Bassi hanno annunciato l'intenzione di raddoppiare la capacità eolica offshore del Paese portandola a 21 GW entro il 2030: un piano che farà dell'eolico la principale fonte di energia.

In effetti, esiste un enorme potenziale per le energie rinnovabili in tutta Europa: si sprecano gli studi che  dimostrano la varietà di opzioni disponibili, dall'eolico offshore sulla costa polacca del Mar Baltico, ai parchi solari nelle ex miniere di lignite nella Macedonia del Nord e in Grecia. Ma c'è ancora molto da fare, soprattutto lato domanda, dove gli aspiranti proprietari di piccoli e micro sistemi rinnovabili, come il fotovoltaico sui tetti delle case (fondamentale per la transizione energetica dell'Europa), incontrano ostacoli per diventare prosumer. Ostacoli ascrivibili al fatto che i decisori politici non hanno ancora colto gli enormi vantaggi economici, sociali e ambientali del decentramento dei nostri sistemi energetici, e pertanto non hanno fatto la loro parte per rimuovere queste barriere.

C’è poi un potenziale significativo per ridurre il consumo energetico complessivo attraverso investimenti in misure di risparmio energetico ed efficienza. E visto l'aumento record delle bollette, le autorità pubbliche di tutta Europa hanno già mappato il consumo di energia non necessario che può essere ridotto. Ad esempio si può ridurre l'illuminazione pubblica di alcuni edifici di notte o abbassare il termostato negli edifici pubblici. Proprio il tema della temperatura all’interno degli edifici è molto controverso,  ma nella maggior parte dei casi le nostre abitazioni potrebbero essere mantenute a temperature confortevoli sprecando meno energia, se solo fossero modernizzate in modo da non disperdere calore.

Sebbene la necessità di accelerare la transizione verso un sistema di energia rinnovabile privo di combustibili fossili sia da tempo sul tavolo delle istituzioni europee, il percorso verso la sua implementazione è irto di ostacoli. È fondamentale rompere con i cicli di investimento tradizionali e incanalare un massiccio sostegno finanziario verso fonti rinnovabili, risparmio energetico ed elettrificazione in modo che la trasformazione dei nostri sistemi energetici decolli correttamente. Le imprese che operano nei combustibili fossili hanno ricevuto sussidi per 5,8 trilioni di euro nel solo 2020. Se anche solo una frazione di tale importo fosse investita in un futuro energetico sicuro, pulito e privo di fonti inquinanti, settori come il riscaldamento, dove la decarbonizzazione è appena iniziata, si trasformerebbero rapidamente a vantaggio di tutti noi.