12 milioni: tanti erano i lavoratori già occupati nelle energie rinnovabili in tutto il mondo nel  2020, secondo IRENA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Rinnovabile diretta dall’italiano Francesco La Camera. Un terzo dei quali solo nel solare. Si badi che i dati si riferiscono al periodo pieno della pandemia e non registrano certo l’ultimo boom del solare e dell’eolico iniziato prima della crisi energetica, ma accelerato con la guerra in Ucraina.  Anche il report in uscita proprio in questi giorni, il 22 settembre, si riferirà comunque allo scorso anno.

In Italia, spesso nel dibattito pubblico, le rinnovabili appaiono come una componente in crescita, ma non maggioritaria anche nel mercato del lavoro: non è affatto così, ma è vero il contrario, anche perché lo sfruttamento delle fonti rinnovabili e gli interventi di risparmio ed efficienza energetica sono notoriamente a maggiore intensità di lavoro. Mancano dati aggiornati e comparativi sul nostro Paese –e questo è una grave carenza per il sistema statistico nazionale- ma secondo IRENA gli occupati nel settore, nel 2020, erano circa 74.000, mentre in Germania erano quasi 297.000.  Andando negli USA, le rinnovabili occupano 3 milioni di persone (dato 2020), mentre le energie convenzionali meno della metà (1,2 milioni di persone, dato 2019, ma la tendenza è di decrescita). Investire nell'energia solare fotovoltaica crea, in media, un numero di posti di lavoro 1,5 volte superiore a quello di chi investe la stessa somma di denaro nei combustibili fossili.

Questo è vero per tutti i settori della transizione: l'efficienza degli edifici crea, per ogni dollaro investito, un numero di posti di lavoro 2,8 volte superiore a quello dei combustibili fossili; il trasporto collettivo crea 1,4 volte più posti di lavoro della costruzione di strade; il ripristino degli ecosistemi crea un numero di posti di lavoro 3,7 volte superiore a quello della produzione di petrolio e gas. Succede anche perché i lavori della transizione sono diffusi sul territorio: quello che in alcuni casi crea tensioni, per esempio con le istituzioni deputate alla tutela paesaggistica, per altri versi è un grande vantaggio. Ragione in più per operare e fare in modo di inserire in modo armonico e minimizzando l’impatto, ma con determinazione, le energie rinnovabili nel territorio.

Nel 2021 si è registrato un aumento del 6% della capacità rinnovabile a livello globale (siamo a 295 GW), nonostante il perdurare di problemi alla catena di approvvigionamento causati dalla pandemia, ritardi nella costruzione e prezzi delle materie prime a livelli record. Nel 2022 la competitività delle rinnovabili è ulteriormente migliorata per gli aumenti marcati dei prezzi del gas naturale e del carbone. L’AIE (Agenzia Internazionale per l’Energia) prevede un ulteriore incremento di oltre l'8% nel 2022, raggiungendo quasi i 320 GW. Del resto, già durante le fasi di lockdown per il Covid, le rinnovabili avevano mostrato la propria capacità di resistere e prosperare anche durante le crisi, a differenza dell’energia convenzionale e nonostante gli ostacoli già citati.

La domanda di manodopera è dunque in ascesa ed è destinata a salire esponenzialmente –si pensi alla necessità di istallare tra gli 8 e i 10 GW all’anno di nuova capacità rinnovabile e alla stima di Elettricità Futura che per 60 GW di nuova capacità prevedeva 80.000 nuovi occupati. Non mi soffermerò ulteriormente sui dati, che rischiano di diventare obsoleti all’uscita di quelli più aggiornati. Vorrei, invece, sottolineare due aspetti. Il primo è la necessità di superare il falso conflitto ambiente-lavoro, transizione-lavoro. Sarebbe banale e scontato dire che i lavori del futuro sono nelle tecnologie del futuro. Se si esamina quanto successo nella realtà e quanto sta succedendo non solo nei settori energetici, ma anche in quelli collegati, è evidente che la transizione è giusta quando va abbastanza veloce. Siamo molto preoccupati perché quando i settori, anche quelli oggi più potenti, cercano di resistere alla trasformazione, il destino probabile è quello di un collasso improvviso che rende impossibile sia la riconversione aziendale che la riconversione dei posti di lavoro. E, invece, già da oggi occorre applicare una strategia di uscita governata, non subita dai decisori politici: tanto più nel caso di aziende partecipate, per le quali si dovrebbero minimizzare le conseguenze sociali con una chiara visione del futuro,  prevedendo gli opportuni ammortizzatori per i lavoratori in uscita e costruendo già la strada per convertire e aggiornare le figure professionali.

Il secondo aspetto che vorrei sottolineare è quello della formazione. Alcune economie a livello mondiale si stanno posizionando per tempo, stanno accelerando e già hanno disponibilità delle necessarie competenze. È vero che le tecnologie sono in costante evoluzione, sinergia e integrazione, il che comporterà che non tutte siano disponibili e prevedibili già oggi, ma avere un sistema formativo adeguato e flessibile, nonché disponibilità dei formatori davvero aggiornati, è l’unica strada per essere pronti. E qui mi riferisco sia ai lavori più qualificati che a quelli di manutenzione.  In Italia sembriamo quasi fermi a una visione novecentesca degli sbocchi lavorativi, se non per poche eccezioni, e tutto è lasciato alla buona volontà individuale delle scuole secondarie, degli insegnanti e delle università. Oggi la questione della formazione è centrale per l’interesse del Paese, visto che, come si sa, c’è carenza di figure indispensabili, si pensi a quelle sanitarie. Oltretutto, il  mercato del lavoro non invoglia le migliori competenze a rimanere in Italia. Se questo è già un problema in generale, tanto più lo è per le nuove professioni, quelle della transizione e quelle del futuro. I compensi non adeguati potrebbero presto aprire una competizione per le competenze più qualificate e meno disponibili. Insomma, mai come oggi c’è bisogno di una regia: del resto, quando vecchio e nuovo si confrontano, lo Stato dovrebbe agire da garante, non lasciandosi intrappolare dall’immobilismo nel nome di presunte neutralità tecnologiche molto dannose; essere protagonisti della transizione, non zavorre, è parte integrante del diritto al futuro del Paese e delle nuove generazioni.