La crisi climatica in corso sta cambiando profondamente la sfera occupazionale, marcando non solo precise direzioni di sviluppo – un esempio su tutti, il passaggio dai motori a combustione alla mobilità elettrica – ma tracciando anche nuovi limiti dell’attività lavorativa.

Già tre anni fa, l’International Labour Organization (ILO) metteva apertamente in guardia su questo secondo, quanto trascurato, aspetto: anche contenendo il riscaldamento globale entro +1,5°C a fine secolo (e oggi siamo già attorno a 1,1°C rispetto alla media pre-industriale), entro 8 anni si perderà l’equivalente di 80 milioni di posti di lavoro a causa dello stress termico, il che comporterà perdite economiche stimate, a livello globale, in 2.400 miliardi di dollari.

L’Asia meridionale e l’Africa occidentale saranno le aree più colpite da questo problema, ma sarebbe una grave sottovalutazione non anticiparne i riflessi anche alle nostre latitudini.

Nel bel mezzo dell’estate più calda mai registrata in Europa, ovvero quella di quest’anno, Inail e Inps hanno aggiornato il vademecum del progetto worklimate, illustrando le iniziative promosse per sostenere lavoratori e imprese nella gestione dello stress termico: si va dalla riorganizzazione dei turni di lavoro al riconoscimento della cassa integrazione guadagni ordinaria (CIGO) per sospensioni o riduzioni dell’attività lavorativa dovute al caldo eccessivo, fino alla pianificazione della risposta alle emergenze.

Un approccio più drastico al problema potrebbe contribuire a riportare in auge un’antica battaglia sociale, riassunta nel motto lavorare meno, lavorare tutti: alcuni recenti studi suggeriscono che ridurre il tempo di lavoro – anche a fronte di uno stipendio mensile costante – potrebbe veicolare una riduzione nelle emissioni climalteranti e al contempo un aumento dell’occupazione.

Ma la principale trasformazione in corso nel mondo del lavoro per far fronte alla crisi climatica verte sul tentativo di rifornire il mondo delle tecnologie necessarie per contrastare il riscaldamento globale, avviando nuove filiere produttive nell’ambito delle fonti energetiche rinnovabili.

Il nuovo rapporto World energy employment dell’Agenzia internazionale per l’energia (AIE) testimonia come, per la prima volta a livello globale, meno del 50% dei lavoratori nel comparto dell’energia sia legato ai combustibili fossili. Un sorpasso storico per l’energia pulita, che si farà più marcato col passare degli anni, e non certo “solo” per motivi ambientali.

Il nuovo studio Empirically grounded technology forecasts and the energy transition, appena pubblicato da un team di ricercatori di Oxford, mostra che la transizione verso le energie rinnovabili non è un costo per la società ma un investimento molto remunerativo.

Rispetto all’attuale consumo di combustibili fossili, passare ad un’economia decarbonizzata e fondata sulle energie rinnovabili – in grado di alimentare anche l’idrogeno verde, la mobilità elettrica, le batterie per lo stoccaggio dell’energia – farebbe risparmiare 12 trilioni di dollari a livello globale.

«I vecchi modelli che prevedevano costi elevati per la transizione verso l’energia a zero emissioni di carbonio hanno scoraggiato le aziende dall’investire e hanno reso i governi nervosi riguardo alla definizione di politiche che accelerino la transizione energetica e riducano la dipendenza dai combustibili fossili. Ma i costi dell’energia pulita sono diminuiti drasticamente nell’ultimo decennio, molto più velocemente di quanto previsto da quei modelli. La nostra ultima ricerca, spiega Rupert Way, l’autore principale dello studio, mostra che la crescita delle tecnologie verdi chiave continuerà a ridurre i loro costi, e più velocemente andiamo, più risparmieremo. Accelerare la transizione verso le energie rinnovabili è oggi la soluzione migliore, non solo per il pianeta, ma anche per i costi energetici».

Come si traduce tutto questo nel contesto italiano? Secondo Fondazione Enel e The European House – Ambrosetti,  in Italia il percorso verso emissioni nette pari a zero entro il 2050 creerà importanti benefici – anche occupazionali – entro il 2050: si parla di rilevanti ritorni economici (+328 miliardi di euro), di occupazione (+2,6 milioni di posti di lavoro), riduzione dell’inquinamento (-614 miliardi di euro di costi connessi alla salute e alla minore produttività) e risparmio sulle spese per combustibili fossili (-1.914 miliardi di euro), rispetto ad uno scenario controfattuale che rappresenta l’attuale proiezione del business as usual.

Guardando a più breve termine, secondo Elettricità futura – la principale associazione confindustriale delle imprese elettriche – per il settore elettrico italiano il nuovo piano europeo REPowerEU si traduce nell'obiettivo di almeno +85 GW di rinnovabili al 2030, che si tradurranno in 470.000 nuovi posti di lavoro nella filiera e nell’indotto elettrico nel 2030 (che si aggiungeranno ai circa 120.000 di oggi) e una riduzione del 75 % delle emissioni di CO del settore elettrico nel 2030 rispetto al 1990.

Il problema, come consueto, sta nella concreta messa a terra degli impianti necessari per dare corpo a questi scenari.

L’Osservatorio dell’associazione confindustriale Anie rinnovabili, basandosi sull’analisi dei dati Gaudì di Terna, documenta che nel primo semestre di quest’anno i nuovi impianti rinnovabili installati in Italia si fermano a 1,21 GW. Si tratta di una buona accelerazione rispetto alla media degli ultimi tre anni (0,56 GW/a), ma resta pessima se confrontata col fabbisogno stimato di nuovi impianti per rispettare i target REPowerEU (circa 10 GW/a).

Affrontare i colli di bottiglia che frenano il permitting degli impianti e promuovere una migliore informazione ambientale, per contribuire a rispondere alle sindromi Nimby&Nimto che troppo spesso frenano lo sviluppo dei progetti, resta dunque un’esigenza ineludibile per far sì che il clima non rappresenti soltanto una crisi da affrontare ma anche un’opportunità da mettere a frutto.