Nel febbraio 2022, in Europa è scoppiato il più grande conflitto militare dalla seconda guerra mondiale. Molte le ragioni che ne spiegano la genesi: un governo autocratico in Russia, la mentalità imperiale della popolazione russa, la propaganda informativa, ragioni di carattere storico. A queste, però, ne va aggiunta un’altra che assume una rilevanza particolare: l’energia, pietra angolare attorno a cui ruotano molti interessi economici e la stessa sicurezza dell’Europa.

Per molto tempo, la Russia ha potuto contare su enormi entrate derivanti dall'esportazione di petrolio, gas e altre risorse, che le hanno garantito una sorta di “cuscinetto” economico, permettendogli al tempo stesso di compiere diverse mosse strategiche. In primo luogo, introiti così ingenti hanno garantito alla popolazione un tenore di vita superiore rispetto quello dei paesi vicini, in particolare le ex repubbliche dell'URSS, il che ha reso la Russia un partner commerciale allentante.

In secondo luogo, Mosca ha goduto, in maniera sempre maggiore, della dipendenza degli stati esteri dalle sue risorse di energia, riuscendo anche in qualche caso a influenzare le istituzioni politiche di questi paesi. Un’influenza che non si è limitata solo ai paesi dell'ex URSS, ma anche all’Europa: condizione che avrebbe garantito stabilità politica in caso di guerra. La costruzione del gasdotto Nord Stream-2 ha accelerato questo obiettivo, anche se di fatto, nonostante la sua ultimazione, non ci sono state le condizioni per renderlo operativo.  In terzo luogo, gli enormi profitti derivanti dalla vendita di risorse, in un modello di capitalismo di stato, hanno consentito alla leadership russa di estendere la sua influenza anche nelle sfere politiche dei paesi confinanti: secondo varie stime, sono stati spesi almeno 10 miliardi di dollari all'anno per creare un'atmosfera di lealtà nei confronti della Russia attraverso il supporto a partiti politici, organizzazioni e fondi fedeli a Mosca. In quarto luogo, è stato creato un potente sistema di propaganda, a livello globale, e in  Russia, l'intera popolazione è stata privata del diritto effettivo di decidere a causa di un forte apparato punitivo nei confronti dell’opposizione.

Mentre altri paesi ricchi di risorse hanno fatto importanti investimenti per lo sviluppo della loro economia, la Russia è caduta nella trappola della cosiddetta Dutch disease, che si verifica quando il bilancio statale dipende dall'esportazione di diversi tipi di materie prime (petrolio e gas) per più di due terzi, mentre la domanda di beni e servizi della popolazione viene soddisfatta dalle importazioni. Condizione che disincentiva lo sviluppo di filiere nazionali. 

Eppure, nonostante il relativo degrado dell'economia russa, questa situazione, in generale, andava bene a tutti. Ai paesi europei è stato garantito di ricevere gas e petrolio relativamente a buon mercato, mentre il Cremlino ha rafforzato la sua posizione. Tuttavia, la situazione inizia a cambiare già all'inizio degli anni 2000. Il rapido sviluppo delle tecnologie di estrazione di petrolio e gas di scisto, il trasporto di gas liquefatto e l'energia verde ha portato a una riduzione della sfera di influenza sui paesi limitrofi e conseguentemente della stabilità nella stessa Russia. L'Europa ha avviato un processo di transizione verso un’economia decarbonizzata, il che presuppone sul medio-lungo termine una riduzione del peso delle fonti fossili sul mix energetico europeo. Condizione che mette in dubbio il modello energetico esistente e con esso il potere economico e politico della Russia.

Con la guerra sta emergendo una nuova struttura di mercato completamente nuova e, di conseguenza, un nuovo sistema di sicurezza. Proviamo a capire come cambierà la sicurezza energetica dei paesi a seguito dell'aggressione armata della Russia.

Un cambio di paradigma energetico riguarderà quei paesi che dipendono in maniera marcata dalle forniture di risorse energetiche dalla Russia. In particolare, se consideriamo i consumi di petrolio dell’anno 2020 la dipendenza dalla Russia era:  Slovacchia (78,4%), Lituania (68,8%), Polonia (67,5%), Finlandia (66,8%), Ungheria (44,6%), Romania (32,8%), Estonia (32,0%), Germania (29,7%), Repubblica Ceca (26,3%). Ancora più difficile la situazione con il gas: Macedonia del Nord (100%), Bosnia ed Erzegovina (100%), Moldova (100%), Finlandia (94%), Lettonia (93%), Bulgaria (77%), Germania ( 49%), Italia (46%). Complessivamente, le importazioni europee dipendono da Mosca per un 30,0% per il petrolio e per il 45,2% per il gas.

Tuttavia, nonostante la presa di coscienza della necessità di sganciarsi dalle risorse russe, risulta quasi impossibile rinunciarvi rapidamente. Si faccia riferimento al petrolio: se per alcuni paesi è possibile ricevere via nave greggio alternativo a quello russo, per i paesi senza sbocco sul mare sembra piuttosto difficile farlo sul breve termine.

Allo stesso modo, con il gas: l'unica alternativa al gasdotto è il GNL. Nel 2021 l'Europa ha importato dalla Federazione Russa 17,4 miliardi di mc di gas liquefatto e 167,0 miliardi di mc di gasdotto (Fonte BP). Si tratta di 184,4 miliardi di mc da reperire su altri mercati, ma non senza evidenti difficoltà. Servono, infatti le infrastrutture di ricezione, che siano gasdotti alternativi nel caso del gas piped  o rigassificatori nel caso di GNL, ma servono soprattutto volumi aggiuntivi di gas, che al momento non ci sono. Australia, Stati Uniti e Qatar, nel 2021, hanno venduto un totale di 309,9 miliardi di metri cubi sotti forma di GNL, ovvero il 60% di tutto il gas liquefatto, la maggior parte del quale destinato all’Asia, che non rinuncerà sicuramente alle sue forniture a favore dei paesi europei, alle prese quindi con una concreta carenza di gas.

Strutturalmente, il mix energetico di tutta l'Europa è così composto: 33,5% petrolio, 25,0% gas, 12,2%  carbone, 9,7% nucleare, 7,4% dall'energia idroelettrica e 12,3% da fonti rinnovabili. Pertanto, garantire la sicurezza energetica europea richiede una sostituzione abbastanza rapida di quasi il 30% dell'energia precedentemente fornita dalla Federazione Russa e quasi la metà è una sostituzione del gas. Una via d'uscita passa dallo sviluppo di terminali GNL e produzione propria di GNL, in particolare in nuovi giacimenti in Polonia e Ucraina, sviluppo accelerato delle fonti di energia rinnovabile la cui quota dovrebbe portarsi al 25% entro il 2030, sviluppo temporaneo dell'energia nucleare.

Ripensare la sicurezza energetica è la parola d’ordine: serve raggiungere gli obiettivi di riduzione della dipendenza dalla Russia, nonché potenziare le infrastrutture energetiche del continente e procedere a uniformare regole in tutti paesi europei, tali da consentire la piena sovranità energetica.

Andriy Stavytskyy (Dr Hab in Economics, Professor of Economic Cybernetics Department, Taras Shevchenko National University of Kyiv)