Oltre a causare una grave crisi umanitaria, l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia ha avuto impatti di vasta portata sul sistema energetico globale, sconvolgendo il mercato e spezzando relazioni commerciali di lunga data. A quanto pare, abbiamo dimenticato la lezione degli Anni 70: non vi è possibilità di pace e libertà quando si dipende dalle forniture di paesi che usano queste ultime come strumento di ricatto politico.

Non a caso, le strategie energetiche degli anni 80 insistevano sul concetto di sicurezza energetica, mentre parte della produzione petrolifera si spostava al di fuori dei paesi OPEC (es. Mare del Nord) e la Francia sceglieva di investire nel nucleare. Avevamo sperimentato che l’energia non è una commodity come le altre, dominata dalle regole di mercato, ma un’arma politica.

Con l’inizio del nuovo millennio, il concetto di sicurezza energetica non solo non ha perso importanza, ma si è allargato dal petrolio al gas naturale, all’elettricità e non da ultimo ai minerali rari indispensabili per la filiera della transizione energetica. Ancora una volta, il nesso energia-politica domina la scena: Alberto Clô  ricorda che, in un documento strategico del Cremlino del 2003, si legge «petrolio e metano sono i principali strumenti della politica interna e internazionale della Russia». Sempre Clô scriveva nel 2016, in periodo di abbondanza di petrolio e gas: “Battersi per il superamento dei contratti a lungo termine, perché vincolo alla liberalizzazione dei mercati o pensare di rinunciarvi perché più costosi delle transazioni spot, dimentichi del fatto che fino a pochi anni fa era esattamente l’opposto, dà conto del trade-off tra mercato e sicurezza, tra temporanei vantaggi nel breve e strutturali rischi nel lungo”. Gestire la ciclicità del settore energetico richiede il difficile esercizio di gestire questo trade-off, coniugando obiettivi di breve e lungo periodo. Di fronte ad una crisi geopolitica, le conseguenze saranno tanto più gravi quanto minore è la flessibilità del mercato.

La scarsa diversificazione di fonti e di fornitori, la carenza di spare capacity e l’assenza di margini di efficientamento sono tutti elementi che contribuiscono a esacerbare la congiuntura. Ma per avere flessibilità occorre un piano di investimenti solido e lungimirante: non si improvvisano infrastrutture energetiche dall’oggi al domani, soprattutto se manca una visione politica chiara (e qui si aprirebbe un fronte di discussione a parte sulle strategie energetiche del nostro paese).

Rimanendo sul tema degli investimenti, anche prima dell'invasione russa, il mondo era ben lontano dal raggiungere i suoi obiettivi energetici e climatici condivisi. Le emissioni globali di CO2 hanno raggiunto un nuovo massimo storico nel 2021 e i mercati stavano già mostrando segni di tensione.

Secondo il World Energy Investment 2022 pubblicato dalla IEA, sebbene gli investimenti in energia pulita abbiano registrato una crescita record nel 2021, essi sono ancora molto al di sotto dei livelli necessari per azzerare le emissioni entro la metà del secolo, e soprattutto risultano concentrati quasi esclusivamente nelle economie ad alto reddito. Certamente, l’attuale tumulto del mercato sta complicando il quadro per governi, aziende e investitori: in uno scenario di estrema incertezza non è facile determinare quali progetti energetici incoraggiare, sviluppare o finanziare. Per questo motivo occorre tenere a mente il tema della conciliazione tra breve e lungo periodo: non dobbiamo perdere di vista il fatto che soluzioni durature alla crisi odierna risiedono nel ricorso alle fonti rinnovabili, nella riduzione della domanda tramite l’efficienza energetica e altre tecnologie a basse emissioni.

Al momento assistiamo invece a un revival del carbone, sia in Oriente che in Occidente, soprattutto come rapida ed economica alternativa al gas naturale nella generazione elettrica. Sempre secondo i dati riportati nel WEI, nel 2022 le stime prevedono, per il secondo anno consecutivo, un incremento del 10% degli investimenti in carbone (non esattamente in linea con il “phase down” concordato a Glasgow).

Il vero punto di domanda è costituito dal settore Oil&Gas. Secondo l’AIE, il totale degli investimenti in upstream rimbalzerà di circa il 10% nel 2022, ma solo la spesa delle NOC mediorientali è risalita sopra i livelli pre-pandemia. Gli investimenti delle major e degli indipendenti sono ancora ben al di sotto dei livelli medi dell'ultimo decennio.

Le rinnovate preoccupazioni sulla sicurezza energetica e l’alto livello dei prezzi (con i conseguenti ricavi record per le Oil&Gas company) aprono una moltitudine di scenari possibili: in quale direzione si riverseranno questi “windfall profit”? Saranno spesi nel fossile o non fossile?

In passato, un periodo di carenza di offerta e prezzi alti innescava un nuovo ciclo di investimenti upstream che, nel giro di breve, riportava i flussi di offerta in equilibrio con la domanda, mentre il prezzo si ridimensionava. Questo automatismo però è in parte compromesso per via dei mutamenti strutturali in corso: chi vuole assumersi la responsabilità di investimenti miliardari con orizzonte di 20-25 anni, sapendo che la politica preme per l’abbandono dei fossili e le emissioni nette zero? Secondo la IEA, se la metà di questi utili Oil&Gas del 2022 (quasi 2 trilioni di dollari), venisse investita in fonti a basse emissioni, avremmo raggiunto in un colpo solo gli investimenti necessari in questo ambito da qui alla fine del decennio per centrare lo scenario Net Zero Emissions.  Riuscirà la politica a creare i giusti incentivi per indirizzare questa enorme massa di denaro nella giusta direzione?

Ritorna di nuovo il tema della conciliazione breve-lungo periodo: ci sono molti modi per rispondere nell’immediato alla crisi energetica; dovremmo cercare di perseguire quello che apra la strada a un futuro più pulito e sicuro e che ci metta al riparo, ora e in prospettiva, dalla crisi climatica.

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