“Per capire la mafia, seguite i soldi”, diceva, pressoché inascoltato se non palesemente osteggiato (fino al tragico epilogo) il magistrato Giovanni Falcone. Per capire la guerra, o per capire perché non si prendano posizioni internazionali che apparrebbero inevitabili, in maniera del tutto analoga, occorre seguire la geopolitica legata agli approvvigionamenti della principale fonte di nutrimento del nostro sistema economico e sociale, incredibilmente energivoro ed obsoleto: ossia quella composta da un fossilissimo mix di petrolio, carbone e, come la cronaca drammatica di questi giorni insegna, gas.
Il nostro Paese, inanellando una serie di scelte strategiche che appaiono a dir poco incomprensibili, se non esplicitamente auto-lesionistiche, ha continuato a considerare del tutto marginale e scarsamente interessante, a livello di strategie industriali, il mondo legato ad efficienza energetica, produzione di energia da fonti rinnovabili, elettrificazione dei consumi, decarbonizzazione dei sistemi di mobilità, trasporti e approvvigionamento alimentare.
Invece di cogliere le incredibili opportunità di sviluppo e affermazione competitiva che ne avremmo tratto come sistema Paese, le politiche governative sono state talmente miopi da portarci, nel 2022, ad essere dipendenti da combustibili fossili (quasi completamente importati), per oltre il 70% dei consumi energetici complessivi.
Sul fronte del gas metano, il consumo nel 2021 è stato pari a 76,2 miliardi di metri cubi, di cui il 95% importato. A rendere ancora più inquietante uno scenario di questo tipo (viste anche le oscillazioni del prezzo di un mercato che non possiamo in alcun modo influenzare, essendo sostanzialmente un consumatore passivo in balia degli eventi), la improvvisa consapevolezza collettiva della nostra scelta di legarci mani e piedi alle politiche di una Russia a trazione Putin, da cui dipendiamo per oltre il 40% degli approvvigionamenti.
Nella sola giornata del 1 marzo 2022, mentre l’Unione Europea tentava affannosamente di mettere a punto strategie economiche sanzionatorie nei confronti dell’aggressore dell'Ucraina, complice un innalzamento da capo giro dei prezzi sui mercati internazionali, i Paesi membri pagavano allo stesso Paese (la Russia) la bellezza di un miliardo di euro per le forniture di gas, petrolio e carbone.
La risposta delle prime settimane tanto delle politiche governative, quanto del dibattito mediatico, è stata incredibilmente insufficiente e mal posta. Complice la mentalità indomabilmente fossile del monopolista di stato degli idrocarburi, la prima reazione è stata quasi unicamente quella di differenziare le fonti, aumentando le quote di gas provenienti da altri Paesi, in barba alla consapevolezza che nemmeno questi brillino in termini di rispetto dei diritti umani, civili, sindacali e di propensione alla democrazia.
Sintomatico in tal senso persino il ricorso alle trattative con l’Egitto, malgrado le moltissime conferme di politiche criminali e liberticide, a partire dall’omicidio di Giulio Regeni, fino alla detenzione totalmente arbitraria di Patrick Zaki.
Troppo poco si è parlato della necessità di spingere fortemente l’acceleratore su un abbattimento dei consumi (in primis attraverso misure radicali e strutturali di potenziamento dell’efficienza energetica) che diventi permanente e che ci consenta di chiudere rubinetti, piuttosto che aprirne di nuovi.
Troppo poco si è ragionato sulle potenzialità delle fonti energetiche rinnovabili, in barba ad una proposta molto concreta e circostanziata degli industriali riuniti in “Elettricità Futura” di sbloccare l’installazione di 60 GW di impianti rinnovabili per ridurre della metà, in 3 anni, le importazioni di combustibili fossili dalla Russia di Putin.
Solo molto recentemente, finalmente, il governo si è deciso, con colpevole ritardo e ancora solo in maniera emergenziale, a prendere in mano la partita di semplificazione degli iter autorizzativi degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, con il DL Energia, che certamente contiene indicazioni e indirizzi importanti per il settore.
Resta la lacuna inaccettabile dell’assenza di un piano strategico a medio e lungo termine, che sia in grado tanto di sistematizzare le strategie dei diversi attori istituzionali (emblematico l’atteggiamento di una larga maggioranza delle Sovrintendenze, chiuse in un anacronistico e miope conservatorismo), quanto di indirizzare le ingenti risorse del PNRR, che dovranno necessariamente essere spese in ottica di investimento sistemico e non disperse in mille rivoli (a partire da filiere industriali che ci consentano di cavalcare la transizione da protagonisti e non di subirla).
È ancora del tutto dimenticato, infatti, l’aggiornamento del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima, attualmente ancora tarato (malamente) su obiettivi europei al 2030 resi ampiamente obsoleti dal “fit for 55”, che ha alzato le ambizioni di decarbonizzazione della UE al 2030, a seguito degli allarmi della comunità scientifica, relativamente alla crisi climatica.
L’ultimo rapporto dell’IPCC non fa che confermare, da un altro punto di vista, ossia quello della crisi climatica, la necessità urgentissima di mettere in atto scelte radicali, che mettano sempre più le fossili dalla parte sbagliata della storia. Per proteggere il nostro prezioso e fragile ecosistema, certo, ma anche per disinnescare i moltissimi focolai di crisi sociali che questo modello dissennato e predatorio continua a creare.
Capiremo mai che, oltre ad una scelta vincente dal punto di vista economico, le politiche necessarie per la transizione energetica sono davvero le prime “politiche attive” per una pacifica convivenza dei popoli? Lo capiremo in tempo?