Le terre rare sono un elemento fondamentale dell’economia contemporanea, ma la loro centralità nelle dinamiche geoeconomiche ha cominciato ad essere pienamente apprezzata solo nell’ultimo decennio. I 17 elementi della tavola periodica conosciuti come terre rare sono presenti in tutte le principali tecnologie. Smartphone, computer, catalizzatori industriali, monitor, fibre ottiche, auto elettriche, turbine eoliche e anche gran parte dell’industria della difesa, con laser, satelliti, missili e jet.

Terre rare: una risorsa cruciale

Il settore in cui però le terre rare giocano un ruolo cruciale è quello della decarbonizzazione e della transizione verde a cui le economie sviluppate stanno andando incontro. Questo processo avrà un impatto profondo sul panorama industriale globale e proprio qui sta la strategicità del possesso e della capacità di lavorazione di queste risorse minerarie, che tuttavia non sono poi così rare come il nome suggerisce.

Le terre rare, infatti, sono distribuite in tutto il globo ma è la particolare geologia in cui esse si formano a determinare la difficoltà dei processi di estrazione. Ad oggi la Cina ne è il più grande produttore. Si stima che nel 2020 il paese rappresentasse il 55% dell’estrazione mondiale di terre rare, mentre nei settori downstream della processazione e di alcune produzioni industriali collegate (come ad esempio i magneti permanenti, essenziali per i motori elettrici, o le batterie per i veicoli elettrici) pare abbia in mano l’80-85% del mercato mondiale. Eppure, la Cina possiede solo il 37% delle riserve mondiali di questi minerali. Il predominio di Pechino in questo campo è la sintesi di più fattori: da un lato, una politica industriale sviluppista molto attenta e mirata alla valorizzazione delle risorse nazionali, dall’altro, il beneplacito dei paesi occidentali verso la delocalizzazione in Cina di un’industria estremamente dannosa per l’ambiente e per la salute delle comunità circostanti.

Tuttavia, il quasi monopolio cinese in questo settore pone un interrogativo per i paesi occidentali che ora si scoprono dipendenti dalle forniture cinesi per la produzione delle tecnologie strategiche del futuro. Nel 2019, mentre le tensioni tecnologico-commerciali con l’amministrazione Trump raggiungevano l’apice con l’annuncio del bando di Huawei, il presidente Xi Jinping visitava un impianto di processazione delle terre rare accompagnato dal capo cinese dei negoziati con gli USA, in una velata minaccia di ritorsione.

Giappone: l’apripista della diversificazione

Un caso simile era accaduto nel 2010: dopo un incidente tra la guardia costiera nipponica e un peschereccio cinese nelle acque contese delle isole Senkaku-Diaoyu, Pechino aveva ristretto per qualche mese le esportazioni di terre rare verso il Giappone. Da allora Tokyo, che all’epoca contava sulla Cina per il 90% dell’importazione di terre rare, è stato il primo paese a dover studiare una propria strategia per diminuire la dipendenza.

Da un lato, le esplorazioni geologiche degli ultimi anni hanno mappato nuovi depositi, e ora il governo ha proposto una riforma per permettere un maggior sostegno finanziario alle attività minerarie. Dall’altro, le imprese giapponesi stanno studiando soluzioni alternative. La chiave di volta però è stata la diversificazione dell’approvvigionamento. A guidare questo processo è stata l’azienda di Stato nota come JOGMEC (Japan Oil Gas and Metals National Corporation), la quale ha investito in vari paesi ricchi di risorse come la Namibia e l’Australia per costruire una rete alternativa e sicura di fornitori di terre rare. Ad oggi quota di importazioni dalla Cina è scesa al 58% e Tokyo mira ad attestarsi sotto il 50%.

Un progetto in comune per l’Occidente

Un’azienda chiave del successo giapponese è stata l’australiana Lynas Corp, che negli ultimi 3 anni ha attirato sempre maggiori attenzioni anche a Washington. Lynas, infatti, è l’unica azienda al di fuori della Cina ad avere le competenze e le strutture necessarie nel settore downstream della processazione, ed attorno ad essa si stanno organizzando alcune importanti iniziative per riportare parte della produzione di terre rare in Occidente. In questo sforzo gli USA sono in prima linea, in particolare da quando nel 2019 Donald Trump ha dichiarato le terre rare “essenziali per la difesa nazionale”. A partire da allora Washington ha iniziato a sborsare fondi per ricostruire una capacità industriale negli USA. Il dipartimento della difesa ha stanziato 30 milioni di dollari per la costruzione di un impianto di processazione in Texas che Lynas dovrà operare in joint venture con Blue Line Corp. e sta anche finanziando la realizzazione di un altro impianto presso la miniera californiana di Mountain Pass (l’unica attualmente in funzione negli USA). Anche il riciclo delle terre rare sta beneficiando di questa rinnovata attenzione: la Urban Mining Company ha infatti ricevuto 29 milioni di dollari per le proprie ricerche. Sul tema della ricerca si è attivato anche il dipartimento dell’energia statunitense, mettendo a disposizione altri 30 milioni di dollari per studiare come rendere più sicure le catene di approvvigionamento statunitensi.

Tuttavia, il settore privato si è già iniziato a muovere. La USA Rare Earth è un esempio chiaro delle nuove ambizioni statunitensi: nel corso degli ultimi anni ha iniziato un programma per l’estrazione mineraria da un deposito texano, ha raccolto fondi per completare gli studi sulla fattibilità dell’operazione, ha lanciato un progetto pilota di processazione (con buoni risultati iniziali) e ha acquistato i macchinari necessari per la fabbricazione di magneti permanenti. Anche in Australia, le aziende hanno mosso passi importanti e, grazie all’incoraggiamento del governo di Scott Morrison, sono stati messi in cantiere diversi progetti per creare una filiera australiana. Tanto che un avvertimento riguardo il sovrainvestimento nel settore è stato lanciato questa estate dalla stessa Lynas, la quale al momento sta lavorando per aprire il primo impianto di processazione australiano a Kalgoorlie che dovrebbe fungere da nuovo centro occidentale per la raffinazione delle terre rare.

Il settore è senza dubbio in fermento: mentre le aziende giapponesi, australiane e statunitensi cercano un modo di approfondire la loro collaborazione, i rispettivi governi riuniti nel Quad stanno tentando di modellare assieme una catena di approvvigionamento delle terre rare che permetta loro di diminuire la dipendenza dalla Cina. Questa svolta è sicuramente merito di Joe Biden, che ha ridato uno slancio multilaterale alla politica estera statunitense, ma l’amministrazione democratica non rinuncia comunque agli strumenti lasciati in eredità da Trump: a settembre, infatti, la segretaria del commercio Gina Raimondo ha lanciato un’indagine sul rischio derivato dall’importazione di magneti permanenti cinesi per la sicurezza nazionale. Entro qualche mese dovrebbe arrivare un rapporto sul tema e Washington potrebbe applicare nuovi dazi: dovesse decidere in tal senso, sarebbe una decisione molto delicata per Biden anche sul piano dell’immagine.

Dove va il mercato?

Cosa bisogna aspettarsi dunque dal tentativo occidentale di creare una catena di approvvigionamenti alternativa a quella cinese? Ci sono numerosi aspetti da considerare, in primis cosa significhi effettivamente costruire una filiera “alternativa”: il consorzio internazionale che ha riaperto la miniera di Mountain Pass comprende infatti anche Shenghe Resources, una grossa azienda cinese con interessi minerari nel settore che vanno dall’Australia alla Groenlandia.

Il settore di per sé presenta degli ostacoli non irrilevanti. Innanzitutto c’è il costo ambientale: per le particolari condizioni geologiche, la lavorazione delle terre rare comporta anche dover smaltire materiale radioattivo. Trattare questi scarti è spesso molto costoso e infatti nei decenni passati l’industria si era spostata seguendo proprio i regolamenti ambientali più permissivi di alcuni paesi. Riportare la produzione di materie prime in Occidente significa quindi imporre dei costi di smaltimento maggiori alle aziende, senza tuttavia eliminare del tutto i rischi per la salute delle comunità circostanti derivati dall’estrazione e dalla lavorazione di questi minerali.

C’è poi il tema della processazione delle terre rare che richiede delle competenze tecniche molto specifiche, per lo sviluppo delle quali è necessaria una lunga esperienza nel settore. Al momento, l’unica azienda occidentale in possesso di queste conoscenze e pronta a competere sul mercato internazionale è Lynas: una posizione che sicuramente l’azienda australiana intende sfruttare per crescere (vedasi appunto l’investimento a Kalgoorlie), ma i cui limiti sono ben evidenziati dall’ancora limitata capacità produttiva se paragonata ai rivali cinesi.

Anche la sostenibilità finanziaria dei progetti è stata a lungo oggetto di dibattito. La stessa Lynas tra il 2014 e il 2020 ha riportato profitti in soli due anni e nel 2016 era stato necessario un bail-out da parte del JOGMEC per salvare l’azienda australiana. Tuttavia, il mercato di oggi è decisamente cambiato e Lynas nel 2021 ha iniziato a registrare vendite record all’aumentare degli ordini, prefigurando una minor necessità di interventi statali in futuro. La domanda di materiali per la produzione di tecnologie verdi è in rialzo, non solo in Occidente ma anche in Cina, e i prezzi delle terre rare sono aumentati notevolmente nell’ultimo anno, raddoppiando in alcuni casi. All’aumento, però, la Cina ha risposto incrementando la propria produzione, per compensare la crescita della domanda e stabilizzare i prezzi. A fine gennaio Pechino ha alzato di un ulteriore 20% le quote semestrali per l’estrazione e la processazione delle terre rare dopo che le stesse erano già state aumentate del 20% nell’ultimo semestre del 2021.

L’ultimo fattore da considerare per la riuscita del progetto di una filiera occidentale, infatti, è il quasi-monopolio della Cina in questo settore e gli effetti che le politiche industriali cinesi possono avere su scala globale. Eppure, la politica di Pechino ha alcuni punti di contatto con quella dei paesi occidentali. Anche in Cina la domanda di terre rare è in rapido aumento tanto che nel 2018 il paese ne è diventato il primo importatore al mondo, e la dirigenza cinese è da tempo cosciente del rischio derivato dall’eccessiva concentrazione del settore e dall’eccessivo consumo delle risorse minerarie nazionali. Anche le esternalità negative del processo di produzione sono ormai ben note, in particolare per i loro effetti sulla stabilità sociale. Nell’ultimo decennio, infatti, le aziende cinesi hanno iniziato a diversificare e investire all’estero, per assicurarsi un flusso stabile e sicuro di terre rare. In questo quadro, per quanto controintuitivo, esse possono pure giocare un ruolo nella rivitalizzazione di alcuni comparti del settore in Occidente.

Se però Pechino è disposta a cedere una fetta del mercato, la propria linea rossa è la sicurezza della propria industria. In particolare nell’era di Xi Jinping, la sicurezza è un concetto cardine e Pechino non può permettere che un settore strategico per lo sviluppo tecnologico come quello delle terre rare venga messo a rischio. In questo momento però quel rischio sembra ancora molto lontano.