La prima tempesta geopolitica che ha colpito il mondo – e i mercati – nel 2022 è stata quella che ha interessato il Kazakistan. Nel gigante geografico ed energetico centro asiatico, a inizio gennaio, si sono infatti registrate partecipatissime mobilitazioni di piazza, scoppiate per il rincaro del carburante. Che nulla ha avuto a che vedere con il ricatto geopolitico di Putin nei confronti dell’Europa, ma molto con l’autoritarismo e le disuguaglianze interne. Le rivendicazioni dei manifestanti si sono, infatti, mostrate fin da subito per quello che erano: politiche oltre che economiche. La protesta è stata repressa con durezza dal presidente kazaco Tokayev – intento in contemporanea a regolare i conti con il predecessore Nazarbayev – e l’ordine è stato in breve ripristinato.
Al di là dei giochi di potere interni, la crisi kazaca ha avuto significative ricadute geopolitiche. E non solo perché a un certo punto Tokayev ha invocato l’intervento delle truppe della CSTO, organizzazione di sicurezza a guida russa, richiesta quest’ultima legata a ragioni prettamente domestiche e di preservazione dell’attuale regime. L’onda d’urto internazionale è, infatti, stata di particolare entità soprattutto perché il Kazakistan è un attore fondamentale dal punto di vista della produzione di materie prime. Petrolio e gas naturale, certo, ma anche uranio, rame e numerosi altri metalli e minerali. Non a caso Tokayev ha fin dall’inizio della crisi sottolineato che il Kazakistan sarebbe rimasto un partner affidabile sul fronte degli investimenti esteri e che l’attività estrattiva sarebbe continuata senza alcun contraccolpo, Cosa che, almeno in parte, si è poi verificata. Nel mezzo del caos politico e sociale kazaco, alcune compagnie tra cui la Chevron, hanno inizialmente dichiarato grandi difficoltà nel portare avanti le proprie operazioni. Ovviamente il prezzo del petrolio ne ha risentito, con la valutazione del Brent che è arrivata a toccare il punto più alto da fine novembre. Come spesso succede, il comparto ha poi riassorbito lo scossone, anche grazie alle notizie rassicuranti – sicuramente per i mercati internazionali, meno per la popolazione locale – che nel frattempo sono iniziate ad arrivare dal paese.
Molto più forte è stato, invece, l’effetto sul mining di criptovalute, settore letteralmente esploso in Kazakistan dopo il divieto dell’estate scorsa della Cina di portare avanti tale attività sul proprio territorio. I numerosissimi operatori insediatisi nella Repubblica centro asiatica, attratti dal clima freddo e dal costo contenuto dell’energia, hanno dovuto fare bruscamente i conti con la realtà. Molti di essi, spaventati dall’instabilità, hanno deciso di smantellare le proprie mining farm. In realtà già a novembre le autorità kazache – in precedenza sempre molto favorevoli al settore – avevano manifestato la loro preoccupazione per un’attività estremamente dispendiosa in termini di consumo di energia elettrica, che aveva iniziato a mettere in evidenza tutti i limiti in termini di soddisfacimento del fabbisogno interno del Paese.
Sul fronte più prettamente geopolitico, quanto successo in Kazakistan a inizio anno ha messo in luce una volta di più la vicinanza del paese alla Russia. Nonostante Pechino abbia negli ultimi anni superato Mosca come principale partner economico – anche energetico – delle Repubbliche dell’Asia Centrale, l’immediata decisione di Tokayev di affidarsi a Putin per la preservazione del proprio potere è stata una chiara scelta di campo. Che il Presidente russo non mancherà di far pesare – coi suoi tempi e le sue modalità – sui tavoli che in futuro vedranno Kazakistan e Russia discutere su vari fronti. La Cina, dal canto suo, ha ovviamente seguito da vicino gli eventi. E non è detto che la mancata “convocazione” per scendere in campo sul fronte kazaco abbia necessariamente irritato Pechino. Anche se il messaggio geopolitico è stato sicuramente chiaro, il fatto che la Repubblica Popolare non abbia dovuto mobilitarsi sul fronte della sicurezza le ha permesso di mantenere inalterata la sua sbandierata politica di non interferenza negli affari interni di altri paesi. Il ritorno alla stabilità in Kazakistan – per quanto ancora relativamente suscettibile di nuove fiammate di insurrezione – è oltretutto il risultato più auspicabile anche per la Cina.
Quello che la crisi kazaca ha mostrato con evidenza è l’accresciuta importanza internazionale dell’Asia Centrale. Importanza legata sicuramente al fattore geografico, che pone la regione al centro delle iniziative di connettività cinesi sotto l’ombrello Nuova Via della Seta, ma anche a quello economico – oltre al Kazakistan, l’area registra la presenza del quarto paese al mondo per riserve di gas naturale, il Turkmenistan – e militare, con le steppe e le montagne centro asiatiche sempre più sulla linea di faglia del confronto internazionale. L’interdipendenza è ormai uno dei concetti chiave per comprendere le dinamiche globali e il Kazakistan – e l’Asia Centrale più in generale – non fanno certo eccezione.