Se ciò che afferma la scienza è corretto, la COP 26 di Glasgow rappresenta un momento nel quale il genere umano si gioca un pezzo significativo del proprio destino. Cosa dice la scienza? Afferma, nella veste dell’IPCC, che se vogliamo contenere la crescita della temperatura entro i 2°C, o ancora meglio entro 1,5°C, dobbiamo far sì che le emissioni del 2030 siano del 25% o del 45% più basse di quelle del 2010. Dove siamo oggi? Siamo sulla traiettoria definita sei anni fa a Parigi che non porta, purtroppo, a una riduzione dei gas serra quanto a un aumento di circa il 16%. Più della parola può l’immagine. Il grafico qui sotto mostra tutta la criticità della situazione: siamo su una traiettoria errata.
Possibili traiettorie delle emissioni di gas serra globali
Fonte: UNFCCC
I target definiti a Parigi - NDCs (Nationally Determined Contributions) - non conducono ai 2°C, e men che meno al grado e mezzo. In sintesi, c’è una contraddizione tra l’obiettivo finale di Parigi e i target di riduzione espressi dai paesi. Dunque, l’Accordo di Parigi è sbagliato? No, per due ragioni: sei anni fa, quando l’Accordo è stato firmato, la traiettoria che vediamo rappresentata nel grafico era ciò che i Paesi erano riusciti, al meglio, ad esprimere. Quello era lo stato dell’arte e non c’era modo di ottenere di più. La seconda ragione è che il meccanismo avviato a Parigi prevede che ogni cinque anni i Paesi migliorino i propri contributi dichiarando target di riduzione delle emissioni sempre più sfidanti. Di qui l’importanza della Conferenza di Glasgow che rappresenta un momento di snodo per gli obiettivi che i paesi dichiarano e, conseguentemente, per le politiche climatiche dei prossimi cinque anni. La Conferenza avrebbe dovuto svolgersi lo scorso anno ma, a causa del Covid, è stata rimandata al 2021.
Cosa aspettarsi dalla COP 26? C’è qualche indizio che possa aiutarci a capire quale potrebbe essere l’esito finale e quali sono le barriere a un accordo che, con vigore, pieghi la curva delle emissioni verso il basso? Sì, vi sono almeno due indizi e, purtroppo, non sono buoni. Il primo è rappresentato dai numeri: l’architettura di Parigi prevede che i paesi siedano al tavolo del negoziato a carte scoperte, e che quindi gli NDCs siano dichiarati prima della Conferenza. La situazione è in evoluzione, con nuovi target che pervengono alla Conferenza Quadro sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) giorno per giorno. Secondo uno studio del World Resources Institute (al quale rimandiamo per approfondimenti), a metà ottobre 140 paesi, le cui emissioni rappresentano il 57% del totale, avevano dichiarato nuovi target. Il 58% di essi implicano maggiori tagli, il 14% implicano nessun cambiamento o, addirittura, un peggioramento, per il restante 28% non è possibile dire se c’è miglioramento o peggioramento a causa dell’insufficienza di dati. Nel complesso la riduzione netta è pari a 3,1 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti al 2030, equivalente a circa il 6% del totale delle emissioni correnti (circa 50 miliardi di ton. CO2 eq.): troppo poco per piegare la curva verso livelli di sicurezza.
Inoltre, e qui veniamo al secondo indizio, Cina e India non sembrano intenzionati ad impegnarsi con tagli drastici delle emissioni. Ciò che si intuisce dal combinato disposto delle esternazioni politiche e delle recenti decisioni di politica energetica favorevoli al carbone – nel 2021 sono state autorizzate in Cina 43 nuovi centrali a carbone e 18 nuovi altoforni per l’acciaio - lascia intendere che sarà improbabile che questi due importanti paesi accetteranno tagli radicali alle proprie emissioni già nel 2030. Il nuovo target sottoposto dalla Cina alla UNFCCC in data 28 ottobre conferma, formalmente, la fiacchezza dell’impegno del Dragone. Pur riproponendo l’obiettivo di raggiungimento del picco delle emissioni prima del 2030 e quello di neutralità climatica prima del 2060, la Cina ha ripresentato per l’ennesima volta un target relativo che potrebbe confliggere con i due goal sopra citati: riduzione dell’intensità carbonica del PIL nel 2030 maggiore del 65% rispetto al 2005. Ha poi esplicitato di voler portare la quota di fonti non fossili al 25%, di incrementare lo stock di metri cubi forestali fino a 6 miliardi e, infine, di espandere la capacità di solare ed eolico a 1.200 GW. I progressi rispetto al precedente NDC sono minimi: a Parigi la riduzione dell’intensità carbonica del PIL proposta era del 60-65% mentre le fonti non fossili al 2030 erano intorno al 20%.
Ma l’elemento critico non è tanto che vi sia un debole progresso sui parametri proposti, quanto che quei parametri siano stati proposti una volta di più e che, dopo un trentennio di negoziato internazionale sul clima, non si riesca ancora ad indurre la Cina a esprimere, sic et simpliciter, un obiettivo di riduzione delle emissioni assolute da realizzare in un anno preciso. Perché è chiaro che la riduzione dell’intensità carbonica del reddito non assicura in alcun modo che le emissioni vengano ridotte, se il reddito continua a salire parecchio. Esprimere il target in termini relativi equivale a non vincolarsi del tutto, lasciando a sé stessi la possibilità di un incremento dell’anidride carbonica emessa in presenza di una crescita economica sostenuta. Diciamolo meglio: equivale a dire che la crescita economica viene prima della riduzione delle emissioni. Dunque, il target cinese conferma, purtroppo, che il pressing europeo e americano – l’inviato speciale degli Stati Uniti per il clima John Kerry si è speso molto per indurre la Cina a un passo più coraggioso – non ha prodotto i risultati sperati. Ciò ci fa capire due cose: l’economia viene prima della diplomazia; vi è ancora molto da fare per allineare i target di neutralità climatica - che Xi Jinping aveva espresso, stupendo il mondo, nel settembre dello scorso anno - alla realtà. Ecco, la COP 26 è un momento di verifica, un misuratore della volontà reale dei Paesi di tagliare le emissioni e salvare il pianeta. Per usare un’immagine, la Conferenza di Glasgow è una cartina di tornasole che viene immersa nella miscela dei target di neutralità climatica, formali e non, espressi da più cento paesi. Ciò che potrebbe accadere è che la cartina non cambi colore e, quindi, si dimostrerebbe che gli obiettivi di lungo periodo sono espressione di retorica.
La timidezza della Cina, che va comunque compresa, è un pessimo segnale per la Conferenza di Glasgow. Non tenere sotto controllo la Cina equivale a mollare la presa sul 27% delle emissioni mondiali, su un paese i cui settori dell’acciaio e del cemento emettono quanto l’Europa, la cui compagnia petrolchimica Sinopec emette più del Canada, il cui gruppo siderurgico China Baowu emette più del Pakistan. Per questi confronti rimandiamo all’interessante studio pubblicato recentemente da Bloomberg.
Su posizioni analoghe a quelle cinesi, ma ovviamente con un grado di responsabilità nettamente inferiore, vi è l’India, il cui Primo Ministro Narendra Modi ha recentemente annunciato un target di emissioni nette zero al 2070 e di 500 GW di capacità non fossile entro il 2030. La nuova posizione dell’India si accompagna a maggiori richieste di assistenza finanziaria. Ecco le parole di Modi, molto nette: "l'India si aspetta che le nazioni sviluppate del mondo mettano a disposizione al più presto un trilione di dollari come finanziamento per il clima" (…) "la giustizia esigerebbe che le nazioni che non hanno mantenuto i loro impegni sul clima siano messe sotto pressione". Di certo, è molto positivo il fatto che un target di neutralità carbonica, sia pure al 2070, sia stato esplicitato da un paese come l’India, responsabile del 7% delle emissioni mondiali, che potenzialmente, con il suo 1,4 miliardi di persone e consumi energetici in crescita, potrebbe diventare una nuova Cina. Tuttavia, la posizione indiana - e quella di molti paesi in via di sviluppo da cui dipende il 90% della crescita delle emissioni - si basa su uno scambio: soldi in cambio di tagli. È questa la sfida che si va prefigurando a Glasgow. L’accordo di Parigi prevede un flusso annuo dai paesi ricchi a quelli poveri pari a cento miliardi di dollari. Al di là del fatto che il flusso reale sia inferiore (vedi grafico) di circa 20 miliardi a quello promesso, i paesi poveri chiedono uno sforzo di gran lunga maggiore. In un meeting sul clima tenutosi a Londra lo scorso luglio, alla presenza di John Kerry, il ministro dell'ambiente sudafricano Barbara Creecy ha alzato l’asticella chiedendo 750 miliardi di dollari all'anno per finanziare la transizione energetica dei paesi poveri e il loro adattamento al riscaldamento globale. D’altra parte, una richiesta del genere non deve stupire perché nei sei anni che ci separano da Parigi si è alzata anche, e di molto, l’asticella dei tagli.
Fondi annuali per il clima dai paesi ricchi a quelli in via di sviluppo
Fonte: Nature
Il G20 appena concluso ha ribadito la difficoltà di ingaggiare, fino in fondo, le economie emergenti nella battaglia climatica. Certo, è importante che esso sia riuscito ad esprimere un target di contenimento della temperatura entro 1,5°C, alzando l’asticella delle ambizioni rispetto ai 2°C. Tuttavia, l’obiettivo di emissioni nette zero è stato espresso nella formula generica “by or around mid-century” proprio per la resistenza di Cina e India ad accelerare il passo. La Dichiarazione di Roma contiene anche il target di piantare mille miliardi di alberi entro il 2030, un obiettivo assai importante e non sufficientemente evidenziato dai media, che potrebbe rivelarsi cruciale nell’arrestare la crescita della temperatura. Nel complesso, si può dire che essa rappresenti un buon risultato: il problema non è tanto nella debolezza semantica che riflette le divisioni dei paesi, quanto nell’elevata genericità connaturata a questo tipo di dichiarazioni. “E’ un successo che manteniamo vivi i nostri sogni. Ora la credibilità dipende dalle nostre azioni”, ha affermato Mario Draghi con notevole capacità di sintesi, ma anche cedendo spazio al proprio inconscio e a quello di tutti noi: azzerare le emissioni entro i prossimi trenta anni rappresenta un sogno di difficile realizzabilità, che però va coltivato.
Rispetto al G20, la COP 26 rappresenta un passo in direzione di una maggiore concretezza, poiché il generico riferimento al grado e mezzo di temperatura dovrà tradursi in obiettivi precisi assunti dai paesi. A Glasgow ritroveremo i nodi di Roma, ma sottoposti a una verifica più puntuale. Scioglierli non sarà affatto semplice. Dubitiamo - e speriamo di peccare di pessimismo - che l’impresa possa riuscire. D’altra parte, se anche ciò accadesse, non va dimenticato che gli obiettivi delle COP sono solo il primo passo di un processo, la dichiarazione di un’intenzione: siamo ancora distanti dal piano dell’azione citato da Draghi. Se anche la volontà non facesse difetto ai paesi, nulla assicura che essi dispongano effettivamente delle leve necessarie per tradurre l’intenzione in realtà. Fino ad oggi, la Storia non conosce casi di transizioni energetiche progettate e realizzate dagli Stati.
Nota: Le opinioni espresse in questo articolo sono degli autori e non vanno ascritte all’azienda nella quale lavorano.