La Commissione Europea, in risposta agli obiettivi della Sostenibilità indicati dall’ONU e discussi nel contesto della Conferenza delle Parti, ha adottato un piano ambizioso di transizione ecologica ed energetica, rappresentato dal Green Deal e dagli obiettivi di decarbonizzazione al 2030 e 2050. Per raggiungere tali target, abbiamo bisogno di mediatori, necessari per poter integrare quote sempre maggiori di fonti rinnovabili all’interno del nostro sistema energetico e garantire la sicurezza dell’approvvigionamento. Per fornire una risposta che mantenga tutte le caratteristiche della sostenibilità e permetta di garantire la fornitura di energia ai consumi finali non abbiamo molte soluzioni che possano essere implementate.
I sistemi di accumulo ed i vettori energetici saranno applicati sempre con maggiore frequenza ed intensità. Tuttavia, le batterie non possono fornire una risposta univoca, per questo bisognerà puntare anche sull’idrogeno che rappresenta peraltro un vettore energetico ideale per flessibilità, proprietà fisiche e chimiche e possibilità di essere generato da molti processi efficienti e derivati dalle rinnovabili. In tale contesto, l’idrogeno rappresenta un’ottima soluzione di accumulo dell’energia rinnovabile e dispacciamento per diversi utenti finali: dai cosiddetti hard-to-abate fino alla mobilità pesante (navi, bus, treni, camion), infine spingendosi anche verso gli usi nella mobilità leggera e nelle applicazioni più residenziali. Vi saranno una serie di condizioni abilitanti che determineranno il successo di questo percorso, di varia natura economica, tecnologica, regolatoria e altro ancora.
Al momento attuale, molti aspetti dell’intera filiera dell’idrogeno sono in forte sviluppo sia dal punto di vista di nuove tecnologie che dell’ottimizzazione ingegneristica e dello scaling up manifatturiero. Lo stoccaggio di idrogeno rientra lui stesso in questo processo di sviluppo delle tecnologie, definizione degli standard da adottare, identificazione delle migliori soluzioni disponibili per le varie applicazioni richieste sul mercato.
Allo stato attuale dello sviluppo tecnologico esistono tre processi che sottendono a intere filiere industriali dedicate all’accumulo dell’idrogeno. Il primo prevede la compressione del gas ad elevate pressioni, il che ne migliora la densità gravimetrica e volumetrica ma con una pesante limitazione dovuta alle tecnologie dei serbatoi (metallici o in composito a fibre di carbonio). Le pressioni raggiunte dipendono dall’uso finale dell’idrogeno e da quanta capacità serve allo stesso, variando fra i 100-150 bar per l’iniezione in rete, 350 bar per mezzi pesanti quali gli autobus e i treni, fino ai 700 bar per gli autoveicoli, e con un consumo energetico per la compressione pari a circa il 15% dell’energia usata per sintetizzare l’idrogeno dal processo di elettrolisi dell’acqua.
Il secondo processo di accumulo prevede invece la liquefazione del gas, che raggiunge densità di idrogeno molto più elevate a discapito di una bassissima temperatura (20 K, -252°C) un elevato consumo energetico (pari a circa il 30% dell’energia chimica accumulata nell’idrogeno), giustificabile solo per alcune applicazioni ad elevati consumi specifici e in tempi di utilizzo ristretti nel tempo.
Il terzo ed ultimo approccio consiste nell’accumulare l’idrogeno cambiando la composizione di un materiale solido attraverso una reazione reversibile. Questo può avvenire nella matrice cristallina o sulla superficie di alcuni materiali solidi con ottimi vantaggi dal punto di vista delle pressioni e temperature di utilizzo che si pongono fra la pressione ambiente e qualche decina di atmosfere, con temperature prossime a quelle ambientali. Tali caratteristiche fisiche dipendono strettamente dal tipo di materiale usato, alcuni più favorevoli come condizioni termodinamiche, ma meno performanti in capacità di accumulo gravimetrico (grammi di idrogeno accumulati per chilogrammo di materiale solido), altri sono più svantaggiosi in riferimento alle condizioni termodinamiche (temperature o pressioni in cui si riesce a rendere reversibile la reazione di accumulo), ma presentano delle capacità di accumulo maggiori. Tali sistemi si dividono in una serie di categorie, definite sulla base del tipo di legame che vengono a formare con l’idrogeno stesso. Alcuni di questi materiali sviluppano con il gas un forte legame chimico, come avviene per i metalli idruri, ad esempio il magnesio o le leghe basate su Ferro Titanio. Altri invece sviluppano un legame fisico più debole, come i materiali ad assorbimento o fisisorbimento, generalmente a base carbonica e caratterizzati da una ampia area superficiale rispetto al volume.
L’accumulo di idrogeno in tutte queste famiglie di materiali è denominato “a stato solido” è presenta alcuni vantaggi rispetto alle condizioni fisiche richieste dalla compressione o dalla liquefazione. Uno di questi è legato alla reversibilità della reazione. Tuttavia, tali materiali richiedono uno scambio termico al fine di assorbire e desorbire l’idrogeno che, se non garantito, comporta lo stop della reazione chimica e del flusso in assorbimento o desorbimento. Per tal motivo, i serbatoi basati su accumulo in stato solido richiedono un sistema di riscaldamento e raffreddamento che permetta, da un lato, di garantire la reversibilità della reazione alle condizioni richieste dal materiale, ma, dall’altro, ne complica la gestione, oltre a determinare delle figure di costo che difficilmente si adattano allo sviluppo di sistemi di accumulo di grandi dimensioni. Dal punto di vista delle proprietà fisiche e della capacità di accumulo, i sistemi di accumulo di idrogeno a stato solido mostrano densità gravimetriche e volumetriche competitive con i sistemi in compressione, arrivando a competere anche con l’idrogeno liquefatto a condizioni criogeniche. Tuttavia, la tecnologia non è mai stata standardizzata in una forma commerciabile e manca di una produzione in serie che permetta di raggiungere economie di scala. Inoltre, e non da ultimo, questi materiali presentano una sensibilità alle impurezze contenute nei flussi dell’idrogeno che ne riducono il tempo di vita e la capacità residua di accumulo ciclo dopo ciclo, elemento questo che ha permesso a questi materiali di trovare uso solo in nicchie di mercato dove emergono le caratteristiche di vantaggio principali che presentano: minori rischi dell’idrogeno nella forma di accumulo solido, l’accumulo volumetrico risulta vantaggioso soprattutto per alcune applicazioni quali droni, mobilità di piccola dimensione, dove il tempo di volo e il payload sono vantaggiosi rispetto alle batterie ad oggi più avanzate.
Tra le famiglie di materiali, per riassumere rispetto ad alcuni di essi, i più utilizzati ad oggi sono gli idruri metallici, come già menzionato. Una seconda categoria sono i Metal Organic Framework (MOF) e i Covalent Organic Framework (COF). Questi sono materiali porosi cristallini che consistono di cluster complessi di ioni metallici e leganti organici. I MOF sono materiali ad altissima porosità che presentano una struttura tipo esoscheletro, dotata di nanopori delle dimensioni inferiori a 2 nm. I COF sono cristalli nanoporosi a base carbonica in forma di polimeri organici costituiti da forti legami covalenti. Questi materiali presentano talora interessanti capacità di accumulo, anche maggiori di altre soluzioni delle categorie citate in precedenza, ma soffrono del rapido deterioramento dei materiali che ne riducono drasticamente il tempo di vita. Una famiglia promettente di materiali per l’accumulo di idrogeno è rappresentata dai materiali a base carbonio.
Per anni si sono studiate molte forme quali i nano tubi di carbonio, i follureni, senza grande successo nel trovare una forma stabile, reversibile e con proprietà di accumulo interessanti. In questo contesto troviamo uno dei conclamati super materiali: il grafene. Si tratta del primo materiale bidimensionale costituito da un reticolo cristallino 2D di atomi di carbonio in matrice esagonale. L’uso del grafene per l’accumulo diretto di idrogeno è stato proposto come possibile soluzione per ottenere sistemi di accumulo ad elevata densità. All’interno del progetto finanziato dalla Commissione Europea, Flagship Graphene, sono state seguite diverse strade e strategie per dimostrare l’effettivo uso di tale materiale nel settore dell’accumulo idrogeno: dalla decorazione superficiale del grafene per migliorare l’assorbimento superficiale del gas, il controllo dell’assorbimento controllando le pieghe dello strato di grafene ed infine usando il grafene ed i suoi sottilissimi strati per limitare la crescita di particelle di metallo idruro, le quali intrappolate all’interno degli strati di grafene con dimensione di pochi nanometri, manifestano prestazioni di accumulo superiori allo stesso materiale in dimensioni macroscopiche. Tuttavia, molta attività di ricerca deve ancora essere svolta prima che tali sistemi raggiungano prestazioni e costi paragonabili alle tecnologie attuali.
Oggigiorno, esistono diverse realtà europee ed internazionali coinvolte nella ricerca e sviluppo dei sistemi di accumulo a stato solido, che ha trovato supporto negli ultimi anni da parte della comunità europea attraverso i programmi di finanziamento del Fuel Cells and Hydrogen Joint Undertaking. Tale supporto sta mostrando i suoi frutti con un trasferimento tecnologico continuo verso il mercato, dove diverse aziende oramai promuovono prodotti basati su questa tecnologia con taglie significative ed economicamente competitive, nei più svariati usi di accumulo stazionario per ambienti residenziali, a supporto della filiera idrogeno nelle infrastrutture per la mobilità, come sistemi di accumulo ibridizzati alle pile a combustibile per regolarne i processi di trasformazione del vettore idrogeno e, chissà, magari in futuro adottati per l’accumulo di idrogeno in settori di applicazione ad oggi non immaginabili.