Da ormai poco più di tre settimane, i talebani hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan e si apprestano a scrivere una nuova pagina nella storia del Paese. Completato il ritiro dei contingenti internazionali, conclusosi con la partenza dell’ultimo aereo statunitense dall’aeroporto internazionale di Kabul il 31 agosto, il gruppo capeggiato dal Mullah Hibatullah Akhunzdada controlla, di fatto, circa il 90% del territorio nazionale. La riconquista del potere da parte talebana è il frutto della campagna militare organizzata e messa in atto dal movimento a partire dall’inizio di agosto, che ha consentito al gruppo di avanzare rapidamente dalle campagne verso i centri urbani e i capoluoghi di provincia in tutto il Paese e che è culminata nell’ingresso senza colpo ferire a Kabul, lo scorso 15 agosto.
Dopo circa vent’anni di conflitto, e a ridosso del simbolico anniversario dell’11 settembre, dunque, i talebani si sono così dichiarati i legittimi vincitori della guerra e hanno annunciato di voler ripristinare l’Emirato Islamico d’Afghanistan. Nonostante il successo dell’iniziativa, tuttavia, il gruppo si trova ora a dover gestire una serie di incognite che potrebbero avere un impatto diretto sulla sostenibilità del governo talebano e dello stesso Paese nel medio-lungo termine.
In primis, sul fronte interno. Il gruppo di Akhunzdada deve superare la grande sfida di riuscire a ricondurre ad una sintesi coerente le diverse anime della militanza talebana, formatesi in questi vent’anni di stravolgimenti interni. Lotte di potere, divergenze operative, conflitti di interessi sono stati solo alcuni dei motivi che hanno causato una frammentazione del fronte talebano nel corso del tempo, la quale si è tradotta nella creazione di un’architettura complessa del movimento in cui la leadership politica (nota come Shura di Quetta), supervisiona e coordina una serie di cellule più o meno nutrite di militanti organizzate su base locale e regionale. Tale complessità potrebbe diventare ora una spina nel fianco per i vertici talebani. In un momento in cui il gruppo si trova nella condizione di poter distribuire incarichi e posizioni di prestigio nel nuovo Afghanistan, coloro che hanno combattuto per due decenni e hanno contribuito al successo dell’insorgenza potrebbero ora premere per ottenere adeguate ricompense. La suddivisione dei ruoli sarà ancor più cruciale per ricomporre le divergenze sviluppatesi in seno alla stessa dirigenza politica, tra le frange più oltranziste che hanno sempre espresso parere contrario al dialogo con gli Stati Uniti (primo fra tutti l’influente Sirajuddin Haqqani, braccio destro dell’Emiro Akhunzdada e leader del famoso network Haqqani, che da sempre rappresenta un fondamentale collegamento tra talebani e al-Qaeda) e coloro che hanno invece sponsorizzato il dialogo, per rilanciare l’immagine politica del gruppo (per esempio, il Mohammad Yaqoob, figlio del fondatore dei talebani, il Mullah Omar).
Se la spartizione degli incarichi rappresenta il problema più urgente, altrettanto importante però sarà per i vertici talebani riuscire ad assicurarsi un controllo e una capacità di gestione capillare del gruppo, sia nei centri urbani sia nelle aree rurali. Questo coordinamento è fondamentale per garantire la sostenibilità della nuova immagine con cui i talebani hanno cercato di presentarsi dopo la conquista di Kabul, sia alla popolazione interna sia agli occhi della Comunità Internazionale. Presentandosi come legittimo vincitore della guerra, il gruppo sta cercando di dimostrare di essere un attore politico più maturo rispetto agli Anni ’90, che possa risultare un interlocutore credibile per i Paesi stranieri interessati a supportare l’Afghanistan in questa nuova fase. Tuttavia, questo cambiamento non è ancora avvenuto in modo uniforme nel gruppo, soprattutto nelle aree rurali, e rischia di restare appannaggio solo dei vertici politici e degli amministratori dei principali centri urbani. Ciò potrebbe creare due velocità nel movimento talebano, mettendo così a repentaglio la realizzazione del nuovo Emirato Islamico d’Afghanistan. Eventuali inconciliabilità di vedute tra i talebani, infatti, potrebbero creare due ordini di problemi: da un lato, aprire la strada alla creazione di nuove costole secessioniste, che, insoddisfatte del cambiamento, potrebbero creare un nuovo fronte di opposizione o cercare un’alleanza con la branca locale di Daesh in Afghanistan. Dall’altro, la mancanza di controllo e un’eventuale nuova recrudescenza di violenze interne metterebbe a repentaglio le prospettive di rilancio dei rapporti internazionali, in primis con gli attori della regione, indispensabile per poter immaginare una ricostruzione del Paese e avviare una ripresa economica interna.
In questo contesto rientrerebbe anche la ripresa dei negoziati per la costruzione del gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan- India (TAPI), per il quale i talebani hanno già espresso il proprio interesse. Non appare causale, infatti, che già lo scorso febbraio, la rappresentanza diplomatica del gruppo, capeggiata dall’ormai noto Mullah Ghani Baradar, si sia recata in visita ad Ashgabat per inquadrare la possibile realizzazione della pipeline in un progetto di sviluppo economico e di partnership politica di più ampio respiro, in un momento in cui i talebani erano ancora ufficialmente l’opposizione armata al governo di Kabul. Il TAPI dovrebbe consistere in un gasdotto di circa 1.814 chilometri per portare il gas naturale dal giacimento turkmeno di Galkynysh alla città indiana di Fazilka, passando per le province afghane di Herat e Kandahar e per le città pakistane di Quetta e di Multan.
Benché i problemi di realizzazione del TAPI vadano anche al di là dell’instabilità che ha caratterizzato l’Afghanistan negli ultimi decenni, il progetto rappresenta un esempio di come i talebani abbiano interesse ad accreditarsi presso le cancellerie straniere come garante della sicurezza e della stabilità nel Paese per poter immaginare una ripresa economica indispensabile alla sostenibilità del Paese nel prossimo futuro.
In questo contesto, le scelte che il gruppo di Akhunzdada farà in questa prima fase di transizione, anche in merito alla composizione del nuovo esecutivo e alla forma istituzionale del nuovo Emirato, saranno importanti per determinare non solo gli equilibri interni, ma soprattutto la sostenibilità del nuovo governo talebano. Con gli occhi internazionali puntati su Kabul, la sfida del gruppo sarà dimostrare di essere in grado di “vincere la pace”, dopo aver vinto la guerra.