Qual è la verità del G7? Quella dell’AIE che si è congratulata con i suoi leader definendo il meeting una pietra miliare? Oppure quella dei movimenti ambientalisti che giudicano insufficiente, per fronteggiare l’urgenza del cambiamento climatico, la riaffermazione dell’obiettivo dei 100 miliardi di dollari all’anno ai paesi in via di sviluppo? Il bicchiere è vuoto o è pieno? Chi ha ragione? Se si fa un’analisi del testo del Comunicato ufficiale del G7 non si può non concludere che, uno, non vi sono elementi di novità di rilievo rispetto al quadro ante-G7, due, gli impegni presi, e soprattutto il linguaggio usato, sono alquanto generici.

Di fatto, potremmo definirlo il G7 della riaffermazione, perché esso ha riaffermato qualcosa che era già emerso: il target di net zero emissions al più tardi (!) entro il 2050, gli ormai famigerati 100 miliardi annui - famigerati in quanto promessi addirittura nella COP 15 di Copenaghen, 12 anni fa, e mai pervenuti in toto a destinazione - l’accelerazione del processo di uscita dal carbone e la fine dei finanziamenti in favore di nuove centrali a carbone nei paesi in via di sviluppo.

Dunque, oggettivamente non c’è un cambio di passo, non c’è un assist in favore della COP 26 di Glasgow che potrebbe in quell’occasione generare un risultato di rilievo. Il salto, va riconosciuto, c’era stato nel 2020 con una schiera di paesi che progressivamente si erano accodati all’Europa nel dichiarare obiettivi di emissioni nette pari a zero nel giro di 3-4 decenni. L’antagonismo storico nei confronti della vocazione ambientale europea era di colpo crollato, inducendo un paese dopo l’altro a sposare la neutralità carbonica. Il risultato ha dell’incredibile: è come se fosse crollata una diga, tanto che oggi 131 paesi aderiscono a questo obiettivo o ne stanno valutando l’adozione. Il ’97, l’anno in cui venne siglato il Protocollo di Kyoto, sembra preistoria: lì, il target di ridurre le emissioni dei paesi industrializzati in media del 5,2% in una quindicina di anni, sembrava fantascienza. Ci si interrogava sugli impatti macroeconomici, sull’onere eccessivo per le economie, sui riflessi inflazionistici. Poco più di 20 anni dopo, quel 5% appare un’inezia. Certo, il costo del kWh green è collassato, la consapevolezza ambientale cresciuta, ci sono stati gli incendi australiani e quelli californiani, la falce dei disastri ambientali ha mietuto vite umane, e la tromba di Greta Thunberg e di Fridays for Future ha risuonato forte nelle piazze e nelle strade delle città del mondo.

Tutto ciò ha portato al 2020 che, va ribadito, è stato un anno di rottura che ha definito un nuovo assetto dei paesi nei confronti della questione climatica. Va detto, però, che dichiarare obiettivi sfidanti non significa raggiungerli, e al momento è indubbio che manchi il ponte tra il sogno della neutralità carbonica e la realtà dell’attuale quota dei combustibili fossili nel mix energetico mondiale ferma all’80%. Ecco, questa è la domanda chiave: come si passa in 30-40 anni dall’80 al 20%? Non bastano le dichiarazioni, piuttosto occorre correre, e il G7 – va riconosciuto – è stato un esercizio di souplesse.

Quel che è cambiato, nei quasi trent’anni che ci separano da Rio, è l’atteggiamento mentale, ma manca ancora l’azione. Usiamo pure l’immagine dell’alunno (il genere umano) che deve fare i compiti (risolvere la questione climatica): prima egli diceva che non c’erano compiti da fare, poi ha ammesso che c’erano ma esitava a cominciare, ora finalmente si è seduto alla scrivania ma nulla assicura che farà quei compiti. Anche perché, nei trent’anni di esitazione, i compiti sono cresciuti a dismisura. Ecco, dichiarare net zero emissions equivale al sedersi alla scrivania: ma come tutti sanno, ciò non assicura affatto la realizzazione di un buon tema. Quale contributo avrebbe potuto dare il G7 allo svolgimento del tema? La risposta è semplice: un passo, anche piccolo, in direzione del “come”. Il come sono le politiche. Come ogni economista sa, al di là dei meccanismi e degli aspetti tecnici, le policy si riassumono in due parole: carbon price. Occorre introdurre, a livello mondiale, un prezzo della CO2 che progressivamente sbarri la strada ai combustibili fossili: 75 doll. per tonnellata entro il 2030, secondo il Fondo Monetario Internazionale, molto di più secondo l’AIE, come mostrato nella tabella che segue, tratta dal Report “Net Zero by 2050. A Roadmap for the Global Energy Sector”.

Prezzi della CO2 per elettricità, industria, e produzione di energia nello scenario Net Zero Emissions (in Doll. (2019) per tonn.di CO2)

Fonte: OECD/IEA 2021, Net Zero by 2050. A Roadmap for the Global Energy Sector, IEA Publishing. Licence: www.iea.org/t&c

 

Per le economie avanzate i numeri sono impressionanti: 130 doll. per tonnellata nel 2030, quasi il doppio di quanto previsto dal FMI, per poi salire nel 2040 a 205 e, infine, a 250 nel 2050. Ma anche i numeri delle economie emergenti sono considerevoli: 90, 160, 200. Se si pensa che attualmente il prezzo medio di una tonnellata di CO2 a livello mondiale è intorno ai 2 dollari si comprende la complessità della rivoluzione da compiere, che non è altro che il corrispettivo fiscale dello shift dai fossili alle rinnovabili. Ecco, su questo argomento cruciale le dichiarazioni del G7 sono state evanescenti: “Riconosciamo il potenziale dei mercati del carbonio ad alta integrità e dei prezzi del carbonio per promuovere riduzioni efficienti in termini di costi dei livelli di emissione (…) sottolineiamo la loro importanza verso l'istituzione di una traiettoria di prezzo del carbonio equa ed efficiente per accelerare la decarbonizzazione delle nostre economie, per raggiungere un percorso globale di emissioni nette zero. In tutto questo, svilupperemo approcci di genere al finanziamento, agli investimenti e alle politiche per il clima e la natura, in modo che le donne e le ragazze possano partecipare pienamente alla futura economia verde”.

Come si possa passare, nell’ambito di un discorso sul fisco, a questioni di gender, non è dato sapere. Certo è che la tonalità del discorso del G7 appare retorica e fiacca. E che cos’è l’inanità del suo discorso se non l’incapacità di assumere impegni nel breve periodo. Perché, a vederla bene, l’intera questione climatica si riassume in una partita a scacchi tra il breve e il lungo periodo: emissioni presenti-danni futuri, tassazione presente-benefici futuri. E in questa dialettica, oramai lo abbiamo imparato, la strategia del policy maker è uno scaltro connubio di promesse di lungo periodo e di latitanza di azioni nel breve.

“Le generazioni future non votano”, ebbe a dire qualcuno, ed ecco spiegata l’astenia del politico. In ultimo, l’opzione più a buon mercato per chi governa la cosa pubblica, ciò che egli può mettere sul tavolo, è l’investimento a favore dell’economia green, tanto più se essa avviene a debito ovvero, di nuovo, a detrimento delle generazioni future. In parole semplici, si rimane nella logica dello scambio, ossia si cerca di comprare con denaro preso a prestito - e la pandemia ha avuto un ruolo cruciale nel chiudere la stagione dell’austerità inaugurando quella del debito senza frontiere – una rivoluzione che richiede ben altro. I soldi pubblici, se anche fossero molti – e al momento sono insufficienti – non possono comprare la transizione. Non solo è incerta la relazione tra l’input dell’investimento green e l’output delle emissioni ridotte, ma essi possono agire sul lato dell’offerta ed assai poco su quello della domanda. Settore pubblico, mondo del business, investitori privati, mondo della finanza, consumatori, cittadini: in questa dannata questione del clima, tutti concorrono al risultato finale ma nessuno ha in mano la cloche dell’aereo.  

Il policy maker si atteggia a pilota ma egli stesso è ben consapevole che nel suo CV non compaia un numero di ore di volo sufficiente per condurre il velivolo dall’aeroporto fossili a quello rinnovabili. E poi, a bloccarlo, c’è quel problema dell’elettorato a cui rispondere. Di qui l’esitazione, l’ambivalenza tra il rigore degli obiettivi di lungo termine declinati con limpidezza e la vaghezza dell’azione presente. Il policy maker è un io diviso, spaccato, che ondeggia tra volere e rinuncia: afferma ma non agisce, promette ma non mantiene. In questa “Ricerca del tempo perduto” contemporanea, romanzo senza fine che si va dipanando sotto i cieli del presente, un’umanità ondivaga oscilla tra slancio dell’idea e stasi dell’azione. È come se la consapevolezza ambientale, certamente cresciuta, si scontrasse con l’inconsapevolezza energetica. Sappiamo che dobbiamo andare verso net zero ma non abbiamo compreso bene - i policy maker per primi - le implicazioni energetiche di quella scelta, la rivoluzione implicita in net zero emissions. Di qui la divisione, non solo in seno al G7. Un esempio paradigmatico di questa frattura nell’io contemporaneo è rappresentato dalla Norvegia che, da una parte, dichiara l’uscita del suo potente fondo sovrano dagli investimenti in fossili e dall’altra continua a investire in oil e gas, aprendo la via a 84 nuove aree di esplorazione. Ciò che viene affermato per gli investimenti finanziari è negato da quelli reali.

Il clima non è la pandemia. La crisi non si risolve con l’arma del vaccino perché assai più pervasiva del Covid è la CO2 e perché la cottura a fuoco lento del cambiamento climatico ipnotizza Sapiens. La COP 26 di Glasgow eredita questo quadro: è presumibile che i paesi rafforzeranno i target rendendoli più coerenti con l’obiettivo ultimo dei 2°C o, ancora meglio, con quello di 1,5°C.  Improbabile, per le ragioni citate, un impegno tangibile sul “come”. Il foglio rimane là sul tavolo, di fronte all’alunno svogliato: il nero dell’inchiostro si perde nella vastità bianca del foglio.

Nota: Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non vanno ascritte all’azienda nella quale egli lavora.