L’importanza dell’infinito numero di Summit internazionali su ambiente e clima che si succedono dal primo (nel lontano 1992 Rio de Janeiro), di cui quattro solo quest’anno: quello organizzato da Biden in aprile, il G7 di giugno, il G20 di ottobre, la COP 26 di novembre – poggia su due principali condizioni. Da un lato, la capacità di fissare obiettivi, nei contenuti e nei tempi, realisticamente conseguibili. Dall’altro, la credibilità dei protagonisti nel dar seguito agli impegni assunti. Condizioni in entrambi i casi che non possono dirsi esaudite.

Quanto agli obiettivi, vi è stata una corsa ad innalzarne l’asticella ed allungarne i tempi (dal 2030 al 2050 e oltre), quasi a renderne impossibile la verifica. Una corsa che ha visto l’Unione Europea in prima fila: innalzando la riduzione delle emissioni di CO2 dal 20% (rispetto al 1990) al 40%, al 55% entro il 2030 e prevedibilmente al 60%. Decisione assunta non sulla base di puntuali valutazioni tecniche sulla loro fattibilità, costi, benefici, ma per ragioni squisitamente politiche. La seconda condizione sta, come detto, nella credibilità dei protagonisti, i grandi del mondo, rispetto agli impegni assunti in passato e ai loro recenti comportamenti. Quelli assunti in passato, specie dopo l’Accordo di Parigi del 2015, sono stati vistosamente disattesi con un netto peggioramento delle emissioni. Ancor peggio nel dopo-COVID nei paesi G7. Se ben disegnate, le politiche avrebbero potuto favorire la riduzione delle traiettorie emissive che hanno ripreso a crescere – dopo il temporaneo crollo del 2020 – tornando ai precedenti livelli. Così non è accaduto.

Per contro, tra gennaio 2020 e marzo 2021 i paesi del G7 hanno investito più di 189 miliardi di dollari a supporto delle fonti fossili, contro 147 alle tecnologie low-carbon. In sintesi: più della metà degli investimenti è stata destinata a industrie high-carbon. Solo quattro paesi, India, Canada, Giappone, Australia, hanno destinato più risorse alle fonti green. In undici paesi vi sono stati solo annunci di politiche climatiche più aggressive, ancora però non tradotte in fatti reali. Le risorse finanziarie messe a disposizione dall’Unione Europea potranno migliorare le cose, a condizione che progetti nazionali siano in linea con le missioni indicate da Bruxelles. Quel che non può darsi per scontato.

Dall’analisi comparata dei Recovery Plan (RP) di 15 paesi europei, condotta da Green Recovery Tracker emerge che (a) undici paesi hanno destinato alle politiche climatiche meno della quota del 37% fissato dall’Unione dei complessi 673 miliardi di euro. Solo Austria, Finlandia, Belgio, Germania l’hanno rispettata; (b) vi sono significativi rischi che diverse misure siano solo in apparenza green al punto da poter sortire effetti indesiderati sul clima; (c) i RP non sono allineati al raggiungimento dei target al 2030 fissati dall’Unione (in parte ancora da inserire nei piani nazionali). Commentando il G7 dell’11-12 giugno scorso il professore Angelo Panebianco ha scritto un articolo (Corriere 14 giugno) dal titolo “Sorrisi e realtà al G7” a indicare la lontananza tra l’atmosfera cordiale del vertice e la dura realtà delle questioni da affrontare. Quel che può valere per la politica internazionale, cui Panebianco si riferisce, ma anche per la tematica ambientale. Il Summit del G7 (10% della popolazione mondiale, 24% delle emissioni globali) ha confermato la sostanzialità inutilità di questi riti, senza che si sia pervenuti a qualsiasi decisioni, anche d’ordine politico, se non stancamente ribadendo quanto in passato già annunciato. A iniziare, dalla promessa, formulata sin dalla COP15 di Copenaghen del 2009, totalmente inevasa, di erogare ai paesi poveri 100 miliardi di dollari l’anno per i progetti utili all’adattamento climatico. Fermatisi l’anno scorso a meno di 10. Al di là di questa ‘promessa’ i sette paesi hanno ri-elencato gli annunci e gli impegni formulati in passato. Aggiungendone uno: conseguire entro il 2050 una piena neutralità carbonica, dimezzando le emissioni nel 2030 rispetto al 2010, con passaggi intermedi del tutto indefiniti, specie relativi al breve termine, periodo elettoralmente sensibile. Suscitando la dura reazione dei movimenti ambientalisti.

Là dove la politica ‘decide di non decidere’ interverranno temo sempre più i giudici, come accaduto con la recente decisione della corte olandese di sanzionare Shell obbligandola a ridurre del 45% le sue emissioni. Nessun paese tra i sette riuniti ha indicato una puntuale road-map nella lotta al global warming. “We commit – sta scritto nel comunicato finale del vertice – to submitting long-term strategies that set out concrete pathways to net-zero greenhouse emissions by 2050 as soon as possible, making utmost efforts to do so by COP26”.

Sulle principali scelte da intraprendere ha dominato una totale vaghezza. Più che della dimensione globale della questione climatica – che richiederebbe come prima condizione un ‘agire comune’ – ogni paese è parso preoccuparsi soprattutto degli impatti interni delle politiche climatiche. Anche la speranza che la ripresa delle economie venisse agganciata alla rivoluzione green è andata delusa, con una strana e ambigua dichiarazione nel comunicato finale: "We are committed to addressing barriers to accessing finance for climate and nature faced by women, marginalised people, and underrepresented groups and increasing the gender-responsiveness and inclusivity of finance".

Identica vaghezza ha connotato gli impegni verso una ‘mobilità sostenibile’ si tratti dell’abbandono dell’industria tradizionale, piombata in una gravissima crisi che mette a rischio in Europa 11 milioni di addetti, o della decarbonizzazione dei trasporti marittimi o aerei. L’impressione è che ogni paese adotterà le decisioni più confacenti ai propri interessi, senza puntare a quella cooperazione internazionale che faciliterebbe il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni. Il tutto in attesa del salvifico appuntamento di novembre delle Nazioni Unite a Glasgow della COP26 presieduta dalla Gran Bretagna e co-presieduta dal nostro Paese.