Che la questione climatica sia un problema maledettamente complesso dovrebbe essere chiaro ai più. Che sia un problema evidentemente globale dovrebbe essere lampante per il più neofita dei governanti. Che non possa risolversi semplicemente ex lege dovrebbe essere almeno materia di discussione. Eppure, si affastellano le anticipazioni di possibili, prossime messe al bando delle autovetture endotermiche, che per muoversi hanno bisogno di carburanti più o meno derivati da fonti fossili. Tanto che anche dall’ultimo summit del Gruppo dei Sette, più noto ormai come G7, tenutosi a Carbis Bay in Cornovaglia, qualcuno si aspettava un qualche tanto perentorio quanto posticipato impegno volto ad impedire che la vendita delle auto fumanti a partire da una certa data.
Così non è stato. E davvero sfugge su quali basi avrebbe potuto essere altrimenti, vista l’efficacia e la costanza con cui il consesso di Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d'America porta avanti gli impegni più o meno reciprocamente assunti.
In materia di iniziative per contenere il cambiamento climatico è d’obbligo ricordare, come ha fatto anche Patricia Espinosa, l’ex-ministra degli Esteri messicana ora responsabile per il clima dell’Onu, che si sta contravvenendo al patto di investire almeno 100 miliardi di dollari l’anno in energie rinnovabili nei Paesi emergenti.
E siccome una nuova auto elettrica immatricolata (o non immatricolata affatto) a Milano o Londra non neutralizza un buon usato venduto a Conakry, può essere utile un efficace esempio che ultimamente pare dimenticato: il protocollo di Montreal. Un trattato internazionale che stabilisce i termini di scadenza entro cui le parti firmatarie si impegnano a contenere i livelli di produzione e di consumo delle sostanze dannose per la fascia d’ozono stratosferico (halon, tetracloruro di carbonio, clorofluorocarburi, idroclofluorocarburi, tricloroetano, metilcloroformio, bromuro di metile, bromoclorometano). Il protocollo disciplina anche gli scambi commerciali, la comunicazione dei dati di monitoraggio, l’attività di ricerca, lo scambio di informazioni e l’assistenza tecnica ai Paesi in via di sviluppo. Firmato nel 1987, entrato in vigore a gennaio del 1989 e sottoposto a revisione nel 1990 (Londra), 1992 (Copenaghen), 1995 (Vienna), 1997 (Montréal) e 1999 (Pechino) e definito dall’ex segretario dell'ONU Kofi: “un esempio di eccezionale cooperazione internazionale, probabilmente l'accordo di maggior successo tra nazioni”. Senza ripercorrere i termini dell’accordo ratificato da 196 stati più l’Unione europea ricordiamo solo che per la messa al bando totale fissata al 2030 sono stati previsti obiettivi puntuali già a partire dal 1991.
In verità almeno l’UE, segnatamente per neutralizzare le emissioni di CO2 nel settore dei trasporti terresti, ha adottato strumenti piuttosto efficaci sin dai regolamenti CE n. 443/2009 e UE n. 510/2011, rispettivamente per le autovetture e i veicoli commerciali leggeri abrogati dal Regolamento UE 2019/631 e affiancato dal Regolamento Ue 2019/1242 che – per la prima volta – impone obiettivi di riduzione delle emissioni di CO₂ per i veicoli pesanti di nuova immatricolazione.
I regolamenti – nel dettaglio alquanto complessi – delineano un chiaro percorso, con incentivi e sanzioni, per la riduzione delle emissioni di biossido di carbonio contribuendo a conseguire l’obiettivo vincolante del meno 40% in tutti i settori economici entro il 2030, rispetto al 1990, così rispettando l’accordo di Parigi. Proseguendo così lungo dei binari di sostenibilità posati più di dieci anni fa per le automobili sono stati fissati degli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO₂ del 37,5% rispetto ai valori obiettivo che dovranno essere raggiunti nel 2021 – che possono essere sintetizzati nel valore medio di 95 gCO2 per km percorso – con un obiettivo intermedio al 2025 del 15% rispetto al 2021.
Nel calcolo delle emissioni medie di CO₂ ogni nuova automobile con emissioni specifiche di inferiori a 50 g/km otterrà dei “supercrediti”: 1,67 autovetture nel 2021, 1,33 autovetture nel 2022.
Le sole autovetture che possono collocarsi al di sotto della soglia dei 50 g CO₂/km (misurati peraltro in modo sempre più rigoroso) devono necessariamente utilizzare energia elettrica, anche se non è detto che siano totalmente elettriche.
Ovviamente non sfugge come la combinazione di questi numeri non faccia zero, che invece vorrebbe essere l’obiettivo della messa al bando. I regolamenti però, pur avvantaggiando i veicoli elettrici – l’energia elettrica viene considerata convenzionalmente con zero emissioni di CO₂, a prescindere da come sia stata prodotta, penalizzando le auto più leggere che perciò consumano meno – perseguono la neutralità tecnologica, non azzerando la concorrenza tra tecnologie e non precludendo il confronto tra vettori energetici. Anche perché è certamente vero che non si possono realizzare motori che non consumano carburante, ma si può senz’altro lavorare per eliminare la CO₂ dai carburanti. Obiettivo su cui pure in diversi si stanno impegnando: dall’idrogeno agli e-fuel. Rinunciare, peraltro con singolare urgenza e non globale condivisione, a questa duplice concorrenza di sicuro poi non avvantaggia chi l’auto l’acquista. Del resto, non è retorica la denuncia di diversi top manager dell’automotive che giustamente ricordano che i veri decisori sono i clienti, che non andrebbero mai persi di vista; anche perché – tacendo sul fatto che potranno esprimersi come cittadini votando – milioni sono e saranno le auto usate che costoro potranno comprare.