Sta crescendo, in questi ultimi mesi, l’attenzione verso il cosiddetto agrovoltaico (in breve AGV) un settore che, mal interpretato nel passato, non ha ancora sviluppato tutto il suo potenziale. In effetti l’atteggiamento di una parte degli investitori nel periodo del cosiddetto “fotovoltaico selvaggio” (2008-2012) è stata dettata più dalla necessità di ottenere facili autorizzazioni alla costruzione degli impianti fotovoltaici che dall’attenzione alle possibilità di recupero e sviluppo di attività agricole.

Gli esempi del passato si sono praticamente concentrati tutti nella realizzazione di serre fotovoltaiche nate non per necessità agricole, ma per realizzare un sostegno a moduli fotovoltaici da sistemare su terreni sui quali, altrimenti, non sarebbe stato possibile installare impianti. Il rapporto tra gli investitori e l’operatore agricolo, nella gran parte dei casi, è andato progressivamente deteriorandosi con il risultato che molte di queste realizzazioni non hanno resistito alle ispezioni del GSE e sono state di fatto abbandonate. Tutto ciò non ha fatto che alimentare giustificati sospetti sulle iniziative proposte provenienti dagli investitori energetici: proposte che partivano tutte da interessi ben diversi da quelli del mondo agricolo.

Il risultato è che riproponendo progetti di AGV ci si trova di fronte ad un clima di profonda preoccupazione sia da parte dei rappresentanti politici del territorio che quelli del mondo agricolo. Tuttavia, con le nuove possibilità tecnologiche ed un approccio AGV 4.0, oggi si inizia a vedere, negli stessi soggetti, una rinnovata curiosità, anche se non mancano i dubbi.

A preoccupare, è soprattutto il consumo di prezioso di suolo agricolo anche perché l’assenza di incentivi ha fortemente ridotto la possibilità di costruire statistiche credibili; preoccupa, però anche l’impatto paesaggistico immaginando enormi distese di moduli esposti al sole al posto di ridenti colline verdi. Si sostiene, quindi, con forza, la cosiddetta reversibilità degli impianti intesa come garanzia che, alla fine della vita utile dell’impianto, tutto possa tornare come prima e restituire all’agricoltura il suolo sottratto.

Si tratta di questioni importanti, ma che si possono risolvere con una vera rivoluzione metodologica, con l’innovazione tecnologica e con una governance tutta ancora da sperimentare.

È vero che il settore AGV nasce dalla spinta degli operatori energetici, ma è anche vero che il problema dell’occupazione di aree agricole in favore del fotovoltaico è, nei fatti, un problema virtuale quando si confrontano i numeri. Se si valuta l’impatto che il fotovoltaico avrebbe anche nel caso in cui nei prossimi dieci anni fosse interamente costruito su terreni agricoli (ipotesi del tutto fantasiosa) si dovrebbe concludere che il problema non esiste.

Guardiamo i numeri:

  • sulla base dei dati Istat circa 125.000 Ha di terreno agricolo sono abbandonati ogni anno in Italia;
  • se si costruissero i circa 30/35GW di fotovoltaico nuovo interamente al suolo come previsto dal PNIEC al 2030, occorrerebbero circa 50.000 Ha, (Legambiente che fa i conti su un PNIEC ancora più impegnativo parla di 70.000 ha) meno della metà dell’abbandono annuale dall’agricoltura.

In realtà, benché non manchino i terreni dove installare il fotovoltaico, di fatto degli ostacoli esistono perché, anche senza espliciti divieti, tutte le amministrazioni locali italiane e le grandi organizzazioni agricole hanno un atteggiamento di assoluta prudenza o, fino a pochi mesi fa, di sostanziale opposizione a concedere l’autorizzazione alla costruzione di impianti fotovoltaici su tali terreni. Anche a livello nazionale il recente decreto denominato FER 1 ha escluso dai registri e dalle aste dei prossimi anni la partecipazione di progetti a impianti realizzati su terreni agricoli.

È evidente che sia preferibile utilizzare superfici diverse dai terreni agricoli, ma tutti gli operatori energetici e i decisori politici sanno che gli ambiziosi obiettivi del PNIEC al 2030 non si potranno raggiungere senza una consistente quota di nuova potenza fotovoltaica costruita su terreni destinati all’agricoltura. La cosiddetta generazione distribuita non potrà fare a meno, per molti motivi, d’impianti utility scale (US) che potranno occupare nuovi terreni oggi dedicati all’agricoltura per una quota, se si manterranno le stesse proporzioni di quanto installato fino ad oggi, di circa 15/20 mila Ha (si tratta comunque sempre meno del 20% dell’abbandono annuale).

Perché ciò sia possibile, è necessario che siano adottati nuovi criteri di progettazione degli impianti, nuovi rapporti tra proprietari terrieri/agricoltori, nuovi rapporti economici e nuove tecnologie emergenti nel settore agricolo e fotovoltaico. In altre parole, si ritiene che la gran parte degli impianti utility scale possa trovare il consenso di tutte le parti coinvolte (Autorità locali, organizzazioni agricole e imprese agricole e imprese energetiche), solo nello sviluppo del nuovo AGV 4.0. Ma come ci si arriva?  

Una prima fondamentale condizione è che l’approccio al progetto parta essenzialmente dalle esigenze del mondo agricolo, ribaltando totalmente l’approccio del passato. Deve essere chiaro a tutti che AGV 4.0 ha successo se l’impresa agricola non solo fa parte integrante del progetto, ma ne è, piuttosto, l’origine. A questo deve adattarsi, nel rispetto del conto economico, l’operatore fotovoltaico, così come a questo devono convenire i responsabili del territorio e dei processi autorizzativi. Questa nuova triade di interessi si deve riconoscere nel comune obiettivo di dare forza all’agricoltura, proteggere il paesaggio, favorire la decarbonizzazione del Paese ed ottenere importanti benefici ambientali e di occupazione.

In concreto, significa che l’impresa agricola deve essere disponibile a valutare, decidere e gestire una nuova fase di crescita ma che per migliorare la propria efficienza produttiva o mutare una parte o tutta la propria produzione ha bisogno di risorse finanziarie e tecnologiche che non possiede o alle quali ha difficoltà di accesso. Si tratta spesso di imprese agricole attive, con terreni coltivati ma la cui redditività è ormai giunta ad una soglia di sopravvivenza, che non riescono ad autofinanziarsi e non riescono ad attivare nuovo debito bancario.

Queste sono le condizioni nelle quali ci siamo trovati ad operare nello sviluppo di un grande impianto (30MW) in Puglia. Dopo aver verificato la disponibilità della proprietà a una profonda trasformazione delle proprie attività agricole, abbiamo lavorato a stretto contatto con l’imprenditore e, insieme a specialisti agronomi, è stata studiata una trasformazione delle colture sviluppabili all’interno degli stessi terreni occupati da fotovoltaico.  
Un cambiamento colturale che, senza un sostegno finanziario da parte del fotovoltaico, non sarebbe stato nelle disponibilità dell’impresa agricola.     
Tuttavia, trasformare l’utilizzo di un terreno agricolo da una coltura decennale a una nuova richiede tempi generalmente lunghi e finanziariamente impegnativi. Nel nostro caso, per esempio, la nuova coltura selezionata (un mandorleto bio-intensivo) richiede almeno tre anni dalla piantumazione prima di fornire un primo reddito, un nuovo livello di meccanizzazione e di automazione dei processi e, nel caso in questione, un sistema d’irrigazione efficiente e nuove quantità di acqua.

Di contro però, le previsioni economiche condivise con l’agricoltore mostrano che un comune utilizzo del terreno (tra agricoltura e fotovoltaico) può moltiplicare fino a 10 volte la redditività agricola e mantenere l’interesse economico dell’investitore elettrico. Quest’ultimo deve in ogni caso adattarsi alle necessità agricole. Nel caso in esame deve distanziare le stringhe del PV almeno del 10% in più di quanto farebbe in assenza di attività agricole per evitare ombre sui moduli, a fronte però di una riduzione dei costi dell’acquisizione dei diritti di superficie per l’utilizzo dei terreni.

Nel progetto considerato, il passaggio da una coltura seminativa e foraggifera ad una arborea determina un diverso fabbisogno di acqua che, specialmente nei primi tre anni di crescita delle piante è molto maggiore della pratica di gestione dei campi precedente impiegata. Si tratta di una criticità a cui il Gruppo Kenergia ha dato risposta, progettando e brevettando un nuovo sistema di raccolta dell’acqua piovana direttamente dal campo fotovoltaico. Il sistema denominato Rain Water Recovery (RWR), e che ora ha dato il nome anche a una società di capitali, raccoglie l’acqua con un sistema di grondaie sistemate in prossimità del bordo più basso dei moduli e, con tubazioni di raccolta, fa fluire l’acqua in serbatoi collocati ai lati del campo fotovoltaico. Il sistema, totalmente indipendente dalla struttura di sostegno dei moduli è applicabile sia ad impianti già in esercizio, che ad impianti nuovi sia fissi, sia mono-assiali.

In questo modo, il sistema RWR con i serbatoi di stoccaggio dell’acqua e di regolazione dell’irrigazione permette anche il recupero di attività agricole non più economiche o di nuove colture più economicamente efficienti, in quanto abbassa il costo dell’acqua oltre a contribuire a un suo uso parsimonioso, laddove è scarsa.

Relativamente ai costi, nei progetti studiati l’onere aggiuntivo che si ha con l’applicazione del RWR è di circa un 4% in più rispetto al costo del MW dell’impianto installato. C’è tuttavia da tenere presente che in genere il sistema non si applica a tutti i MW dell’impianto ed quindi il Capex/MW aggiuntivo risulta alla fine proporzionalmente inferiore.

Nei contratti allo studio si ipotizza che il costo d’investimento della raccolta d’acqua sia a carico dell’investitore elettrico, mentre l’impresa agricola che riceve l’acqua gratuitamente nei propri bacini di raccolta, provvede al sistema di irrigazione distribuito con criteri di water saving. La convenienza economica del sistema RWR è stata poi valutata introducendo il parametro LCOW (Levelized Cost of Water) per un confronto con i costi locali dell’acqua agricola, da cui risulta che il costo dell’acqua RWR è pari a solo il 25% del costo locale.

Un ulteriore fattore che può' trasformare in un must l’AGV 4.0 è rappresentato dalle regole di gestione per la convivenza di due operatori provenienti da culture molto diverse tra loro. È verosimile pensare sulla base delle esperienze in corso, che potrebbe emergere una nuova figura professionale: l’operatore agro-voltaico. Un agricoltore che si evolve per far fronte ad una nuova domanda del mercato della decarbonizzazione e della nuova agricoltura, che oltre ad utilizzare una strumentazione di controllo informatico per la produzione agricola, svolge alcune funzioni di manutenzione del campo fotovoltaico così intrinsecamente legato alle proprie attività.