L'Azerbaigian, paese sub-caucasico, oggi – e da un trentennio – in guerra con l'Armenia per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh, è uno dei produttori di idrocarburi dello spazio eurasiatico che più efficacemente è riuscito a rilanciare il comparto energetico all'indomani dell'indipendenza dall'URSS.
Pur disponendo di riserve di petrolio e gas più limitate rispetto ad altri produttori dell'area del Caspio, Baku è riuscita ad attirare il know how, i finanziamenti e il sostegno diplomatico necessari a far ripartire la produzione e ad avviare flussi significativi di esportazione verso i mercati regionali (Turchia, Georgia) ed europei (Italia in primis) attraverso la costruzione di infrastrutture dedicate – l'oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC) e il gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum (BTE), oggi primo segmento del più ampio Corridoio meridionale del gas dell'Unione Europea.
Ciò detto, né la genesi né lo sviluppo del conflitto hanno alcunché a che vedere con l'energia, per lo meno se si è alla ricerca di un nesso causale con il controllo delle riserve, della produzione o delle infrastrutture di esportazione. Inverosimile, peraltro, che queste ultime possano divenire obiettivo di attacchi militari. Nonostante l’evidente salto di qualità fatto registrare dallo scontro armato, e nonostante nei giorni passati le forze armene abbiano apparentemente lanciato attacchi missilistici contro infrastrutture strategiche in territorio azerbaigiano (dall’aeroporto di Ganja alla diga di Mingachevir), BTC e BTE – e, con essi, gli interessi di investitori e importatori – resteranno credibilmente al riparo da attacchi. A fronte dei discutibili benefici che un attacco alle infrastrutture offrirebbe agli Armeni, i suoi costi diplomatici sarebbero infatti certamente elevati, tanto nella partita diplomatica che si dipana attorno agli scontri militari quanto in quella, più rilevante, che si aprirà quando le armi avranno taciuto.
Quanto detto non significa d'altra parte che l'energia non rappresenti un elemento centrale per disegnare i contorni del quadro strategico e diplomatico all'interno del quale il conflitto di colloca. Non potrebbe essere altrimenti, in considerazione del ruolo centrale che lo sfruttamento del comparto energetico azerbaigiano ha svolto e svolge per la politica estera, oltre che interna, di Baku.
Cogliere il nesso tra il conflitto e l'energia conduce, in questa prospettiva, a valutare il ruolo della rendita energetica e del suo reinvestimento. Quest'ultimo è anzitutto responsabile della repentina crescita delle risorse di potere azerbaigiane e, con essa, della evidente asimmetria che caratterizza lo scontro armeno-azerbaigiano. La rendita energetica ha cioè permesso a Baku, nel corso dell'ultimo quindicennio, di devolvere significative risorse alla Difesa, con stanziamenti per acquisto di armamenti in qualche caso analoghi, in termini assoluti, all'intero budget statale di Erevan – spinta stabilmente, di conseguenza, nell'orbita militare della Russia, principale e più credibile garanzia della sicurezza nazionale armena.
La dimensione esterna del reinvestimento della rendita energetica assume un peso non meno significativo di quella interna nell'individuare il nesso tra conflitto ed energia. La spesa in infrastrutture transfrontaliere di trasporto – energetico e non – ha difatti consentito a Baku di ampliare e rinsaldare i legami con i paesi di transito delle stesse e con i paesi di consumo degli idrocarburi, elevandone il profilo su scala regionale. Gli elevati investimenti effettuati per la realizzazione del Corridoio meridionale del gas dell'Unione europea – che al di fuori dell'iniziativa azerbaigiana difficilmente avrebbe visto la luce in una congiuntura caratterizzata da un eccesso di offerta rispetto alla domanda – rappresenta la migliore testimonianza di questa dinamica. Da un'analoga prospettiva potrebbero essere peraltro inquadrate anche le iniziative azerbaigiane di sviluppo del trasporto ferroviario già realizzate sull'asse est-ovest (tra Azerbaigian, Georgia e Turchia) e da tempo in fase di sviluppo su quello sud-nord (tra Iran, Azerbaigian e Russia).
La riallocazione della rendita energetica è dunque assurto a pilastro sul quale l'Azerbaigian ha costruito il sistema di incentivi e disincentivi utile a spingere l'Armenia al compromesso negoziale e alla soluzione del conflitto. Fallito, alla metà degli anni '90, il tentativo di fare dell'energia il perno per la soluzione del conflitto seguendo una logica di scambio tra territori e oleodotti, lo sviluppo della partita infrastrutturale ha cioè dichiaratamente perseguito l'opposta logica di isolamento dell'Armenia dalle direttrici di sviluppo regionale. E, conseguenzialmente, alla risoluzione del conflitto veniva direttamente legata la possibilità di coinvolgimento del Paese nei progetti regionali che, unitamente alla riapertura delle frontiere con la Turchia – chiuse da Ankara nel 1993 proprio in risposta all'occupazione armena del territorio azerbaigiano – avrebbe potuto dare nuovo slancio a un'economia evidentemente “soffocata”.
Su questo sfondo, che l'incentivo della riapertura dei canali di comunicazione e dell'inclusione dell'Armenia nei progetti regionali non abbia sortito l'effetto auspicato da Baku, che il programma di riforme economiche lanciato dal Primo ministro Nikol Pashinyan all'indomani della Rivoluzione di Velluto del 2018 non abbia contemplato la possibilità di ammorbidire strumentalmente le rigide posizioni negoziali armene rappresenta ulteriore e non secondario fattore di disillusione azerbaigiana rispetto alle possibilità di soluzione pacifica del conflitto. E, in quanto tale, una delle concause che hanno spinto Baku a far ricorso a quella carta militare che, come più volte dichiarato in passato, rappresentava ultima ratio per riaffermare i propri diritti sull'area contesa.