Oltre a una crisi sanitaria senza precedenti e al baratro della conseguente crisi economica la pandemia da Covid-19 ha aperto una parentesi che, dal punto di vista squisitamente ambientale, sembra invece contenere risultati più che incoraggianti. Nel secondo trimestre del 2020 i consumi di energia italiani sono calati del 22% rispetto al 2019 (mentre su base semestrale segnano -14%) e «anche nell’ipotesi ottimistica di un ritorno alla normalità nella seconda parte dell’anno, a fine 2020 la flessione sarà probabilmente superiore al record negativo del 2009 (-6%)», spiega Francesco Gracceva, il ricercatore che ha curato l’ultima Analisi trimestrale del sistema energetico italiano di Enea.
Una tendenza che ha favorito in modo deciso sia la crescita relativa delle rinnovabili nel mix energetico italiano, sia un crollo netto nelle emissioni di gas serra. Eppure, c’è poco da festeggiare. In primis perché si tratta sì di risultati ambientalmente positivi, ma guadagnati a prezzo di una crisi socioeconomica che ancora deve dispiegare tutti i suoi effetti: è evidente come la decrescita infelice non possa rappresentare un modello di sviluppo sostenibile per il nostro tempo. In secondo luogo, perché si tratta di risultati contingenti, legati a doppio filo alla crisi che stiamo vivendo, e non a cambiamenti strutturali del nostro sistema energetico; appena riaccenderemo i motori il rischio concreto è di fare ulteriori passi indietro anziché conquistare nuovi progressi. La storia recente purtroppo lo dimostra chiaramente. Nel corso del 2019 le emissioni di CO2 legate al settore energetico in Europa sono calate il doppio che in Italia, dove sono sostanzialmente ferme ai livelli del 2014; nel frattempo, però, il clima del nostro Paese si surriscalda a velocità praticamente doppia rispetto alla media globale. Anche le nuove istallazioni di energie rinnovabili crescono col contagocce ormai dal 2013, tanto che se proseguiremo con questo ritmo gli obiettivi al 2030 rimarranno irraggiungibili. Per cambiare passo è indispensabile rimuovere i freni che finora hanno limitato le possibilità della transizione energetica in Italia, partendo dagli investimenti in impianti innovativi e dal superamento delle sindromi Nimby e Nimto (not in my terms of office) ormai dilaganti da Nord a Sud dello Stivale.
Per quanto riguarda il primo punto arrivano notizie finalmente incoraggianti sul fronte dell’eolico offshore, dove l’Italia – e l’intero Mediterraneo – sconta un enorme ritardo rispetto ai Paesi del nord Europa. Dopo un iter lungo un decennio, il progetto Beleolico da 30 MW al largo dell’Ilva di Taranto potrebbe entrare in produzione nell’anno in corso, divenendo il primo parco eolico off-shore del Mare Nostrum. Nel frattempo, altre importanti installazioni sono in fase di valutazione (ambientale e non): la Energia wind 2020 ha avanzato un progetto da 330 MW di potenza e 59 aereogeneratori, che verrebbero installati dai 10 ai 22 km al largo della costa di Rimini; la Ichnusa wind power propone invece 42 pale eoliche, galleggianti, a 35 km dalla costa sud Occidentale della Sardegna, con una potenza elettrica totale di 504 MW (quanto basta per dare elettricità da fonte rinnovabile a 650mila utenze). Si tratta di impianti che, se realizzati, potrebbero dare una svolta allo sviluppo delle rinnovabili nel nostro Paese, con i relativi benefici occupazionali e climatici.
Come documenta infatti Legambiente, i dati sull’eolico in Italia raccontano che ad oggi l’impegno messo in campo è largamente insufficiente: «Il Piano d’azione nazionale (Pan) individuava nel 2010, in attuazione della direttiva 2009/28/CE, un obiettivo di installazioni al 2020 pari a circa 12.680 MW di cui 12.000 MW onshore e 680 MW offshore. Siamo a 2.000 MW in meno sulla terra ferma e il target per l’offshore è totalmente mancato. La media di installazioni di impianti eolici all’anno, dal 2015 a oggi, è di appena 390 MW. Nel 2019 le installazioni sono leggermente cresciute con 400 nuovi MW (meno 118 MW rispetto al 2018), arrivando a 10,7 GW di potenza complessiva: numeri assolutamente inadeguati per raggiungere gli obiettivi fissati al 2030 dal Piano energia e clima, e che presto dovranno essere rivisti con l’innalzamento dei target previsti a livello europeo. L’Italia dovrà infatti impegnarsi a installare almeno 1 GW di potenza eolica l’anno con impianti a terra e in mare, e in parallelo realizzare investimenti diffusi per ridurre drasticamente consumi energetici e emissioni di CO2 in tutti i settori produttivi».
Paradossalmente, di fronte a questi ritardi ciclopici, i maggiori ostacoli rimangono culturali e amministrativi più che tecnici o economici. E qui torniamo al secondo dei punti brevemente indicati sopra: le sindromi Nimby e Nimto. L’eolico offshore continua infatti ad essere fieramente contrastato ad esempio dall’Anci Sardegna, ovvero dai sindaci di un’isola ancora oggi fortemente dipendente dal carbone, adducendo poco comprensibili motivazioni paesaggistiche (le pale eoliche sarebbero visibili dalla costa solamente con un binocolo). Lo stesso purtroppo si può dire per il governo regionale dell’Emilia-Romagna, che nell’Adriatico vanta una densa presenza di piattaforme petrolifere ma – anziché cogliere le opportunità di riconversione del comparto energetico locale – guarda con fastidio all’ipotesi di raccogliere l’energia del vento. In entrambi i casi a supporto delle sindromi Nimto delle amministrazioni locali ci sono le sindromi Nimby di comitati e associazioni ambientaliste che hanno scelto un approccio marcatamente conservazionista, come Italia nostra.
Anche dal punto di vista culturale non mancano però i segnali di speranza, in arrivo dal Cigno verde. I presidenti di Legambiente nazionale e Legambiente Emilia-Romagna – rispettivamente Stefano Ciafani e Lorenzo Frattini – si sono esposti pubblicamente mobilitando l’intera associazione ambientalista a sostegno del parco eolico off-shore riminese, mentre Edoardo Zanchini – responsabile Clima e vicepresidente nazionale di Legambiente – è intervenuto per ben due volte sulle pagine del principale quotidiano economico nazionale (Il Sole 24 Ore) entrando nel merito della proposta sarda parlando di «rivoluzione nell’ambito dell’offshore».
«Con questo progetto – argomenta Zanchini – cambia tutto il dibattito sulle rinnovabili ma anche sull’offshore. Nel momento in cui arriva un progetto come questo il problema del paesaggio non esiste più. Ci pare una opportunità straordinaria». Sulla stessa linea Vincenzo Tiana, responsabile scientifico di Legambiente Sardegna: il progetto «rappresenta la vera novità sullo scenario energetico e ambientale. Le strutture galleggianti non sono in conflitto con il sistema paesaggistico. E questo fatto non solo alleggerisce il carico a terra, ma dà la possibilità di sfruttare il vento dove soffia più forte». Ma sta a noi se cogliere o meno l’opportunità: non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare.