In anticipo su molti competitor, Eni si è data il 2040 come scadenza per raggiungere le zero emissioni nette. Contestualmente, dal 2018 al 2050 punta a ridurre del 55% l’intensità carbonica delle proprie attività. Abbiamo chiesto all'Ing. Carmela Sarli (Subsurface and Wells R&D manager) di illustrarci la nuova strategia di transizione di Eni.
Come siete arrivati a definire i nuovi target? Quali sono gli step intermedi previsti? Quale la metodologia di cui Eni intende avvalersi per calcolare le riduzioni lungo tutto il ciclo di vita produttivo?
Si tratta di obiettivi molto ambiziosi che abbiamo definito costruendo un piano di azioni integrate volte alla riduzione dell’intensità carbonica delle nostre attività. In particolare, Eni intende aumentare l'efficienza per ridurre al minimo le emissioni dirette di CO2 nelle sue attività convenzionali; aumentare la quantità di gas naturale nel suo portafoglio; sviluppare energie rinnovabili ed imprese verdi, con un approccio circolare che massimizzi l'uso dei rifiuti come materia prima e il recupero di beni in disuso o recuperati; sviluppare nuove tecnologie volte a catturare e utilizzare in maniera più efficace le emissioni di carbonio (CCUS) e promuovere progetti di conservazione forestale.
Per prima cosa è necessario precisare che quando si parla di riduzione delle emissioni bisogna tenere conto dell’origine delle stesse e della loro corretta classificazione. Le emissioni si dividono in dirette (scope 1) derivanti dalle sorgenti riconducibili alle attività della compagnia (ad esempio emissioni da combustione, legate al flaring o al venting, fuggitive); indirette (scope 2), derivanti dalla generazione di energia elettrica, calore e vapore acquistati da terzi e utilizzati negli asset della compagnia; indirette (scope 3), ossia quelle emissioni che avvengono lungo la catena del valore a monte e a valle dell’attività della compagnia (es. fornitori e clienti).
Ciò premesso, per traguardare gli obiettivi di decarbonizzazione Eni ha messo a punto una roadmap molto sfidante fissando al 2025 l’obiettivo di eliminare il flaring di processo; al 2030 la neutralità carbonica delle attività upstream (scope 1 e 2); al 2035 la riduzione del 15% della intensità emissiva netta (scope 1+2+3) rispetto al valore di riferimento del 2018; al 2040 l’azzeramento delle emissioni nette su tutte le attività di business del Gruppo (scope 1 e 2).
Il percorso, molto articolato, è coadiuvato da alte competenze tecnologiche e dal contributo chiave della Ricerca e Sviluppo. La metodologia utilizzata per restituire una corretta contabilità delle emissioni di gas serra (GHG) è ispirata al “lifecycle approach” e ha coinvolto l’Imperial College di Londra come consulente scientifico indipendente e l’ente di certificazione internazionale RINA: per ogni prodotto energetico vengono considerate le emissioni associate all’intera catena produttiva secondo un approccio che parte del punto di origine fino al consumatore finale.
Tra le tecnologie che permetteranno ad Eni di raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione rientrano anche quelle legate alla cattura e stoccaggio della CO2 (Carbon Capture and Storage). Di quale tipo di stoccaggio stiamo parlando? Esistono già dei progetti pilota?
La CCS è una tecnologia di estrema importanza per il contenimento della temperatura al di sotto dei due gradi centigradi come indicato dagli Accordi di Parigi sul clima. Noi crediamo che i campi in via di esaurimento, ad esempio i giacimenti di gas ormai alla fine della loro fase produttiva, rappresentino una importante opportunità per uno sviluppo veloce e sicuro della CCS. Stiamo quindi conducendo un’analisi puntuale su tutti questi giacimenti sia in Italia che all’estero per valutarne la potenzialità in termini di volumi stoccabili di CO2 e relativa capacità di contenimento. Il tutto con il riutilizzo delle facilities esistenti (impianti, condotte, pozzi etc), quali le piattaforme e le linee di trasporto.
Le nostre competenze ci hanno permesso di avviare un importante programma di ricerca focalizzato su tutte le fasi di implementazione della CCS, a partire dalle sorgenti emissive con la cattura della CO2 fino allo stoccaggio, passando per il trasporto.
Sviluppare modelli di simulazione sempre più precisi e dettagliati consente di ottimizzare le fasi progettuali e, ancora più importante, ci permette di effettuare previsioni a lungo periodo (anche centinaia di anni) al fine di operare nelle condizioni ottimali per garantire il contenimento permanente della CO2.
Che cosa succede alla CO2 una volta confinata nei pozzi depletati? Non vi è un rischio di fuoriuscite?
L’attività di CCS è sicura dal punto di vista HSE sia a livello di superficie, essendo la CO2 non infiammabile e chimicamente stabile e inerte a condizioni atmosferiche, sia a livello di sottosuolo. A tale proposito, i giacimenti sono costituiti da rocce porose e permeabili presenti nel sottosuolo al di sotto di rocce di copertura impermeabili, in strutture geologiche che hanno impedito per milioni di anni la migrazione degli idrocarburi. Per tale motivo, la “trappola” che ha generato il giacimento produttivo rappresenta il contenitore ideale per lo stoccaggio di gas naturale e di CO2. Grazie alle tecnologie e conoscenze sviluppate da Eni e all’utilizzo del nostro supercomputer siamo inoltre in grado di prevedere dove e come si muoverà la CO2 nei giacimenti, dove si accumulerà. Abbiamo inoltre sviluppato sistemi di modellizzazione proprietaria che permettono di valutare l’interazione a livello mineralogico della CO2 con le rocce serbatoio e specialmente le rocce di “copertura” permettendo di escludere fenomeni di alterazione delle stesse per effetto della CO2.
Il progetto di CCS di Ravenna, che diventerà il più grande al mondo, sfrutterà questo enorme bagaglio di conoscenze e competenze unitamente all’esperienza che abbiamo maturato nel campo degli stoccaggi di gas dagli anni ’60.
Al Sequestro e Stoccaggio (CCS) della CO2 si è aggiunta nel tempo la parola Utilizzo (CCU), poiché infatti l’anidride carbonica può essere riutilizzata in diversi settori industriali. Prevedete di riutilizzare la CO2? In che attività?
L’anidride carbonica è una risorsa importante della natura, alla base del ciclo della fotosintesi e perciò della crescita di tutto il sistema vegetale. Eni sta sviluppando una varietà di tecnologie che trasformano la CO2 in prodotti di largo consumo, con i conseguenti vantaggi in termini di riduzione di emissioni e beneficio per l'ambiente. Stiamo sviluppando processi di mineralizzazione in cui la CO2, reagendo con fasi minerali naturali, viene trasformata in modo permanente in carbonato, utilizzabile in molti cicli produttivi tra cui quello della produzione di materiale cementizio
Un ulteriore filone tecnologico è la bio-fissazione intensificata della CO2 mediante microalghe. Tutte le piante, in presenza di anidride carbonica e luce, effettuano la fotosintesi clorofilliana, che significa utilizzare CO2 e produrre ossigeno. Inoltre, in tutto il mondo vegetale, le microalghe sono in grado di trasformare la massima quantità di anidride carbonica per unità di massa. Intensificando un processo naturale quale la fotosintesi, è possibile fissare la CO2 e convertirla in biomassa secca. Per ogni tonnellata di biomassa prodotta, la CO2 fissata è quasi il doppio. Tale biomassa, che è nota anche come “farina algale”, è ricchissima di proteine, oli, tra cui omega3 ed altre sostanze con importanti proprietà mediche ed è molto ricercata come prodotto nel campo alimentare o della mangimistica, nutraceutica e cosmetica. Il contenuto in oli, inoltre, è potenzialmente utilizzabile come materia prima per le nostre bioraffinerie: quindi, tramite le alghe, che sono delle vere e proprie bio-fabbriche, abbiamo la possibilità di realizzare un esempio concreto di economia circolare, in cui è possibile decarbonizzare e ottenere prodotti di altissima qualità e olio riutilizzabile nel nostro stesso ciclo produttivo.