Che cos’è il Green Deal europeo? Null’altro che l’atto finale di una storia di difesa del clima iniziata più di venti anni fa. Nel 1996 l’Unione Europea propone un obiettivo di contenimento della temperatura di 2°C: occorrerà attendere venti anni prima che gli altri paesi, con il Paris Agreement, adottino lo stesso traguardo; poi nel 1997 a Kyoto, propone un target di riduzione delle emissioni del 15%, fantascienza per l’epoca. Seguono diversi pacchetti climatici, dal famoso 20-20-20 alla roadmap al 2050 che, di fatto, disegna un percorso di decarbonizzazione dell’Europa. Dunque, il Green Deal (GD) non è altro che un passo verso la traduzione delle parole in pratica. È necessario se si vuole che le parole contenute nei diversi documenti che fanno la storia ambientale dell’Europa non siano formula vuota. Tuttavia è qui che cominciano i problemi, perché è esso stesso parola e nulla assicura che quella parola abbia la forza di trasformare se stessa in realtà. Al momento è poco più di un arcobaleno espressivo che spara nel cielo del futuro la cifra monstre di mille miliardi di euro a favore della difesa del clima. Posto che, per le ragioni fin qui citate, il disegno di quell’arcobaleno era necessario, scriveremo qui di seguito quali sono le principali barriere che il GD trova sul suo cammino.
L’unicità dell’impresa. Il Green Deal è un Everest, ma non l’Everest che noi conosciamo oggi, scalato ormai centinaia di volte, ma l’Everest prima del 1980 quando Reinhold Messner ne conquistò - primo al mondo - la vetta in solitaria e senza bombole di ossigeno. L’impresa è temeraria perché è la prima volta, nella storia mondiale, che si congettura di trasformare un intero paradigma economico per via amministrativa, passando da un modello basato su linearità e combustibili fossili ad uno fondato su circolarità e rinnovabili. Trasformare un’economia con la legge e farlo in un battito di ciglia, perché tali sono trent’anni nell’asse della storia economica: questo è l’obiettivo dell’Europa e per di più, come Messner, in solitaria. L’impresa riuscirà? Sarà possibile ruotare di 180° la direzione di marcia di un’economia ricca, complessa e articolata come quella europea? È congetturabile modificare in soli trent’anni, radicalmente, i comportamenti di 500 milioni di persone? Possono la politica e la legislazione riorientare in pochi anni e drasticamente - questo è il punto chiave - l’economia? La storia, purtroppo, non ci soccorre con casi da imitare. I casi studio disponibili sono quelli relativi alla riconversione delle economie di mercato in economie centralizzate. La storia ci dice che la riconversione c’è stata ma l’esito non è stato dei migliori, come testimonia l’implosione degli stati comunisti e il cambio di direzione di Deng Xiaoping in Cina. Questo cambio, e l’odierno successo dell’economia cinese, ci dice che una trasformazione rapida è possibile quando essa libera gli animal spirits di keynesiana memoria. “Arricchitevi, cinesi” disse Deng Xiaponing al suo popolo, ed esso lo fece. Ma qui in Europa Ursula Von Der Leyen non sta chiedendo agli europei di liberare i propri istinti di arricchimento e di profitto ma di cambiare direzione e riconvertirsi. Certo, non annullando i propri animal spirits, ma di certo riorientandoli, controllandoli, mitigandoli. Funzionerà?
I numeri dell’impresa. La figura che segue descrive la dimensione della sfida europea. Il maggiore sforzo richiesto nei trent’anni dal 2020 al 2050 rispetto ai precedenti trenta (1990-2020) è ben visibile nell’accresciuta pendenza della curva di riduzione dei gas serra totali dell’Unione Europea. Riteniamo, tuttavia, che la figura non colga la dimensione dello sforzo richiesto che, invece, viene ben evidenziato dai numeri impietosi.
UE, andamento delle emissioni di Gas Serra (Mt.CO2 eq)
Fonte: European Enviroment Agency
Vediamo i dati storici: dal 1990 al 2018 l’Europa ha ridotto le proprie emissioni totali passando dalle 5.723 ton. CO2 del 1990 alle 4.391 del 2018. Si tratta di una riduzione dello 0,9% annuo, superiore rispetto a quanto richiesto dal target del -20% (-0,8%). Assumendo che nel 2020 le emissioni scendano a 4.218 (projections with additional measures) e che nel 2050 il target di abbattimento sia del 90% - con un 10% di compensazione delle emissioni residue da riforestazione, in modo da conseguire la neutralità carbonica – il tasso di riduzione annuo diventa pari al 6,9%, per salire al 9,2% e al 12,1% nel caso in cui l’obiettivo di riduzione diventi pari, rispettivamente, al 95% o al 98%. E se anche si volesse considerare l’ipotesi di una neutralità carbonica ottenuta con un 80% di riduzione delle emissioni e con un residuo 20% di compensazione, il tasso di abbattimento sarebbe sempre elevato, ovvero pari al 4,6% annuo.
Gas serra totali UE e tassi di crescita medi annui
Fonte: Elaborazioni su dati European Enviroment Agency
In parole povere, lo sforzo richiesto è tra le 4 (-80%) e le 12 volte (-98%) quello fatto nel periodo 1990-2018, peraltro aiutati da una delle peggiori recessioni economiche della storia del pianeta. A questo proposito, anche immaginando una contrazione sostanziosa delle emissioni indotta dal coronavirus, l’impegno di abbattimento per gli anni a venire rimane cospicuo. Se infatti si assumesse uno scenario catastrofico per l’economia europea che faccia collassare le emissioni totali nel 2020 del 25%, i tassi di abbattimento rimarrebbero elevatissimi (-3,6% nel caso di target -80%, -5,9% nel caso di target -90%, -8,2% nel caso di target - 95%). Riteniamo che questi numeri evidenzino più di ogni speech politico la dimensione difficilissima dell’impresa da compiere.
I costi. Quanto costa decarbonizzare l’economia europea? Non troviamo risposta più completa, e sintetica allo stesso tempo, di quella contenuta nello studio di Knopf et al. ”Beyond 2020 - strategies and costs for transforming the european energy system”, pubblicato su Climate Change Economics nel 2013. Lo studio presenta i risultati dell’Energy Modeling Forum del 2013, interamente dedicato alla decarbonizzazione dell’economia europea. Lo studio pone a confronto i risultati delle simulazioni di undici modelli tra i migliori del mondo, di tipo statistico-econometrico o tecnologico. La figura sotto mostra il prezzo di una tonnellata di anidride carbonica nell’orizzonte 2010-2050, nel caso di abbattimento dell’80% delle emissioni di CO2. Si può vedere come i prezzi s’impennino all’avvicinarsi del 2050, quale effetto della maggiore difficoltà insita nel target. Nel 2050 il range va da 240 a 1.127 euro/ton.CO2, con un valore mediano di 521 euro. Se l’abbattimento fosse pari al 40%, il range andrebbe da 48 a 83 euro/ton.CO2, con un valore mediano di 64 euro. In altri termini, tendere alla decarbonizzazione completa implica incrementi dei costi non proporzionali: nella fattispecie, passando da un abbattimento del 40% ad uno dell’80%, il prezzo della CO2 non raddoppia ma si moltiplica per 8. Al crescere della sfida, l’ultimo miglio del percorso diventa vieppiù faticoso.
Andamento del prezzo della CO2 secondo diversi modelli
Fonte: Knopf B. el al 2013, ”Beyond 2020 - strategies and costs for transforming the european energy system”, Climate Change Economics, Vol. 4, Suppl. 1
Se si confrontano i 521 euro del 2050 con gli odierni 23 euro vigenti sul mercato dell’ETS, si comprende tutta l’audacia della sfida. Lo studio EMF 28 propone anche il corrispettivo dei 521 euro in termini di perdita di PIL: il 3,7%! Si dirà che da quando lo studio è stato prodotto, nel 2013, il costo delle rinnovabili, in particolare del solare, è collassato e che quindi, verosimilmente, i modelli sovrastimano lo sforzo. Ciò ha un contenuto di verità ma è altrettanto vero che i modelli simulano su un orizzonte di 40 anni e quindi, in certa misura, incorporano gli effetti di apprendimento ed economia di scala. È chiaro che se i numeri sono questi, la barriera da superare è proibitiva.
L’investimento. Un quarto del bilancio europeo sarà destinato alla difesa del clima e all’ambiente. Nel complesso si tratta di almeno mille miliardi di euro nei prossimi dieci anni: 503 messi a disposizione dalla UE, 279 finanziati da istituzioni nazionali e sovranazionali e dalla BEI (250 miliardi), 114 da cofinanziamenti nazionali, 143 dal Just Transition Mechanism che opera a favore, soprattutto, degli Stati più svantaggiati dalla transizione. Assumendo - e non è scontato - che questi soldi ci siano e che il Patto di Stabilità e Crescita non sia una barriera insormontabile alla transizione green, resta comunque una domanda: saranno sufficienti? Facciamo qui un rapido conto, assumendo che la UE spenda un trilione di euro per ciascuna delle tre decadi che ci separano dal 2050, ovvero 3 trilioni di euro. La IEA aveva stimato nel 2015, nel report preparatorio della Conferenza di Parigi (Energy and Climate Change), un investimento totale di 38 trilioni di doll. per conseguire i 2°C. Ora la UE rappresenta poco più del 20% del PIL mondiale (circa 80 trilioni di doll.). Dunque, assumendo che lo sforzo sia proporzionale alla ricchezza prodotta, la UE dovrebbe spendere circa 7,6 trilioni di doll. ovvero 7 trilioni di euro, più del doppio dei 3 trilioni. Ed è immaginabile che la cifra sia maggiore poiché i costi di abbattimento europei sono assai più alti di quelli delle altre aree geografiche, essendo l’Europa caratterizzata da un livello di efficienza energetica elevato e da emissioni pro-capite assai più basse di quelle nord-americane. In altri termini, abbattere il carbonio in Europa è più costoso che altrove. Facciamo questi calcoli banali e grezzi – e forse pure pretenziosi – perché purtroppo non si dispone di allegati tecnici che entrino nel dettaglio dei numeri. L’impressione è che l’Europa abbia lanciato il cuore oltre l’ostacolo indicando una direzione e un obiettivo ma senza conoscerne nel dettaglio le implicazioni economiche.
Ci fermiamo qui. Ragioni di spazio impediscono di approfondire altri aspetti di grande interesse relativi, ad esempio, all’architettura delle policy dell’Unione Europea. Attraverso quali strumenti si decarbonizzerà l’economia europea? L’Unione Europea avrà la forza di introdurre nei settori non ETS una carbon tax elevata e, di pari passo, riuscirà a far crescere in misura sensibile il prezzo delle quote di carbonio nell’emissions trading? E come riuscirà ad armonizzare le esigenze degli Stati più green con la realtà carbonifera dei polacchi? E che dire del fatto che l’intero costrutto della decarbonizzazione europea poggia sull’ipotesi di una penetrazione elettrica quasi totale all’interno di un mix energetico nel quale l’elettricità, oggi, rappresenta solo il 21%?
Queste sono alcune domande addizionali che l’impresa, titanica, pone. L’elencazione, fin qui fatta, dei principali problemi intrinseci al Green Deal europeo non deve essere intesa come una dichiarazione di resa, piuttosto come un tentativo di intravedere nella nebbia dei pochi numeri finora esplicitati dall’Unione Europea il loro significato e le loro ampie implicazioni. Per le ragioni mostrate sopra, la decarbonizzazione dell’economia europea dovrà essere sostenuta da robusti interventi di compensazione del carbonio via riforestazione, in Europa e in altre parti del mondo: senza tali interventi i tassi di riduzione delle emissioni appaiono oggi proibitivi. Non vediamo altra via. Va sottolineato, inoltre, come dal punto di vista meramente aritmetico l’enorme sforzo europeo pulirebbe il 10% delle emissioni del pianeta, poca cosa. Dunque non serve? Tutt’altro, il suo valore è simbolico. Come Messner con l’Everest, l’Europa potrebbe mostrare al resto del mondo che esiste una via alla scalata di quella cima, oggi impossibile, che è la decarbonizzazione dell’economia. Riproponiamo la metafora alpinistica poiché quella proposta dalla Presidente Von Der Leyen – l’uomo sulla luna – non ci sembra appropriata. Qui non si ambisce a un’impresa unica e spettacolare, piuttosto l’obiettivo finale è l’apertura di una nuova via, ripetibile, da mostrare agli atri paesi e agli altri esseri umani. Le considerazioni fatte in questo articolo ne evidenziano le criticità enormi e la quasi impossibilità nei tempi stabiliti. Ma anche la conquista dell’Everest in solitaria e senza bombole di ossigeno lo era, prima che un uomo non mostrasse agli altri che l’impresa era possibile.
Nota: Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non vanno ascritte all’azienda nella quale egli lavora.