Due eventi stanno riproponendo pesantemente il tema dell’energia e dell’ambiente nel mondo: il viaggio di Greta a New York ed il bombardamento degli impianti di trattamento del petrolio in Arabia Saudita. Sono due segnali fortissimi, fra loro intrinsecamente legati ed a cui non si può rispondere separandoli o considerandoli indipendenti uno dall’altro. Esiste una indiscussa e crescente sensibilità ambientale soprattutto nel mondo industrializzato occidentale, che sta creando una domanda di energia pulita e di riduzione o addirittura di eliminazione delle emissioni di CO2 nell’atmosfera. Un movimento sempre più ampio reclama soluzioni dal mondo politico, soluzioni che tuttavia non appaiono nemmeno individuate o messe all’ordine del giorno.

Tutte le azioni, costosissime, che sono state intraprese o che si pensa di attuare nei prossimi decenni in Europa hanno un effetto globale quasi trascurabile. Tenendosi ai fatti ed alle statistiche disponibili, sappiamo perfettamente che il consumo di fonti fossili resterà alto almeno per altri tre decenni. Al 2050, la percentuale di queste fonti scenderà dal 80 al 70%, ma aumenterà il suo consumo in valore assoluto, visto il trend di crescita della domanda energetica mondiale. I due terzi dell’umanità hanno un bisogno indispensabile delle fonti fossili per garantirsi una possibilità di crescita e di sviluppo. Gli interventi che i paesi europei potranno fare per sostituirle con fonti alternative di energia, forniranno un contributo insignificante alla riduzione delle emissioni di CO2 ed all’inquinamento complessivo del pianeta.

D’altronde, non è nemmeno immaginabile la possibilità di bloccare la crescita dei due terzi dell’umanità dicendo loro di restare nella miseria, perché altrimenti inquinano. La risposta alla richiesta di Greta non è quindi l’abolizione delle fonti fossili, ma il loro utilizzo con tecnologie alternative, che esistono già e sono solo da implementare, magari, migliorandole e perfezionandole. Occorre un gigantesco piano di investimenti che consenta un upgrading dei sistemi di raffinazione nel mondo integrando tecnologie diverse (Gas To Liquid, Biotecnologie, gassificazione del carbone, ecc.) con quelle tradizionali esclusivamente petrolifere.

Si evita di parlare di questo argomento, perché si dà per scontato che, tutto sommato, l’approvvigionamento di prodotti petroliferi (benzine, gasoli, jet fuel) sia garantito per tutto quel tempo che viene chiamato “di transizione”, che in realtà nessuno è in grado di quantificare esattamente. E, soprattutto, non si vuole riconoscere che la soluzione passa per il riconoscimento del ruolo essenziale delle grandi compagnie petrolifere mondiali. Solo loro dispongono della tecnologia, capacità organizzativa e fonti finanziarie per affrontare e vincere questa sfida. Solo il tempo ci dirà esattamente quale sarà la soluzione tecnologica vincente e quanto lunga sarà la cosiddetta transizione.

Ogni giorno ci accorgiamo che il complesso dell’industria e della logistica petrolifera mondiale scricchiola da tutti i lati. Mentre nei decenni passati si è investito massicciamente nel settore upstream per la ricerca e produzione di idrocarburi, per garantire riserve in grado di soddisfare la domanda futura, nell’ultimo periodo si è assistito ad un decadimento progressivo dell’industria della raffinazione mondiale, che appare, oggi, obsoleta ed insufficiente a garantire l’approvvigionamento continuo dei mercati finali.

Già oggi, ogni giorno, vi sono mercati regionali, specialmente nei paesi africani, dove potenziali consumatori non riescono ad approvvigionarsi dei prodotti di cui hanno bisogno. Ciò fa sì che, a fronte di una continua crescita della capacità di offrire greggio sui mercati mondiali, il sistema di raffinazione non è in grado di trasformare questa materia prima in prodotti finiti. Troppi colli di bottiglia del sistema produttivo mondiale impediscono questa equivalenza e continuità fra offerta di greggio ed offerta di benzine e gasoli.

Succede quindi che una parte della disponibilità di materia prima venga costantemente accumulata nelle scorte del sistema logistico mondiale in attesa di essere avviata agli impianti di lavorazione e trasformata in sottoprodotti. Il fenomeno non viene percepito dai mercati occidentali sia perché il mercato petrolifero finanziario ci trasmette la sensazione di disporre di risorse illimitate, purché si sia disposti e capaci di pagare il prezzo richiesto, sia perché le ricorrenti e temporanee mancanze di prodotti si riversano sui paesi più deboli e privi di infrastrutture di raffinazione.

In questa cornice si colloca l’incidente in Arabia Saudita, dove, tecnicamente parlando, sono venuti a mancare circa 5-6 milioni di barili/giorno di greggio. Di per sé un volume enorme e significativo, capace di determinare un impatto notevole nel rapporto già critico fra domanda ed offerta. C’è stata una forte emozione nell’opinione pubblica e sui mercati finanziari del Brent ICE (mercato dei barili di carta) che ha fatto rimbalzare il prezzo di oltre 10 doll/bbl. Nulla è invece successo sui mercati fisici del petrolio. Nessun raffinatore si è trovato a corto di greggio o costretto a rivedere in modo significativo i suoi piani di approvvigionamento.

In un momento stagionale di relativa bassa domanda e di scorte elevate, la momentanea mancanza di produzione saudita è stata assorbita bene dal sistema produttivo complessivo. In altre parole, un evento gravissimo, che destabilizza il principale soggetto garante degli equilibri del mercato petrolifero mondiale, è stato attenuato dalle condizioni contingenti del momento. Lo stesso incidente in un momento diverso dell’anno avrebbe potuto avere effetti più devastanti.

È stato interessante osservare la conferma di come il meccanismo di formazione dei prezzi sia strutturalmente legato alla dinamica dei mercati finanziari. Emersa la notizia dell’incidente saudita, nonostante non ci fosse alcun impatto sui mercati fisici, il prezzo del Brent è schizzato in alto per oltre 10doll/bbl, per iniziare a rientrare subito dopo, quando si è percepito che non ci sarebbero stati effetti devastanti. L’escursione del Brent ha mosso, tuttavia, trilioni di dollari, spostando masse finanziarie da e verso il mercato petrolifero, con profitti da capogiro per chi ha saputo muoversi con tempestività.

È comunque arrivato un segnale allarmante sulla fragilità del sistema mondiale degli approvvigionamenti petroliferi. La mancanza di stabilità nell’area del Golfo ed in tutto il Medio Oriente può minare alla base il senso di sicurezza che ha guidato le politiche energetiche degli ultimi decenni, dalla fine dei due shock petroliferi del 1973 e del 1979. Purtroppo, in un’area del mondo dove da millenni si confrontano potenze regionali, pensare a facili scorciatoie per determinare nuovi assetti geopolitici, rischia di essere illusorio e perdente.

Il percorso verso la mitica transizione energetica potrebbe non svolgersi con la serenità e gradualità che viene ipotizzata. Eventi esogeni potrebbero far saltare gli equilibri di un sistema già precario per le fragilità logistiche ed industriali.

Purtroppo, l’Italia sembra essere ogni giorno più vulnerabile in questo contesto mondiale. Convinti che “ormai il petrolio te lo tirano dietro” e che la transizione energetica ci porterà domattina fuori dalle fonti fossili, stiamo dismettendo attività strategiche fondamentali nel settore degli idrocarburi, sia privandoci della indispensabile sicurezza degli approvvigionamenti, sia mettendoci fuori del percorso di ricerca ed implementazione delle tecnologie per l’utilizzo sostenibile delle fonti fossili. Stiamo cioè abbandonando la via maestra che dal dopo guerra ci ha fatto divenire un fondamentale leader mondiale nel settore energetico. La politica energetica è stata uno dei pilastri della nostra politica estera. Una verità dimenticata dalle classi dirigenti del settore, che sembrano aver perso l’orgoglio per il ruolo storico da loro svolto nell’interesse del paese, e dai politici che si affannano ad arraffare ogni voto generato dai sussulti ambientalisti.

Speriamo che il risveglio dalla irragionevole disinvoltura con cui stiamo distruggendo un patrimonio minerario, tecnologico e strategico, sull’altare di questa nuova religione dell’effimero ambientalista, non risulti drammatico per l’intero paese.