La resa dei conti sulla Brexit è rimandata al 31 ottobre, ma l’impasse sembra essere di sempre più difficile risoluzione, aggravata peraltro dalle dimissioni di Theresa May e dal conseguente risiko interno al debolissimo partito conservatore e a Downing Street. Sullo sfondo, la persistente e forte spaccatura tra Brexiteers e non, esito prevedibile del voto inglese alle recenti elezioni europee. A tre anni dal referendum, questo nuovo rinvio potrà ancora tradursi in un accordo (come e quando non è dato sapere), concludersi col tanto temuto “no deal”, oppure sfociare in un secondo referendum. Comunque vada, molti settori hanno già risentito del clima d’incertezza e, laddove possibile, stanno correndo ai ripari per limitare il costo della separazione. Tra questi rientrano anche l’energia e l’ambiente, materie progressivamente più integrate a livello UE, e negli ultimi cinque anni tra le priorità dell’uscente Commissione Juncker tramite la strategia della “Energy Union”.
In Europa (e il Regno Unito non fa eccezione) i benefici di una maggiore integrazione in campo energetico e climatico si vedono e sono incoraggianti: nella flessibilità e nella sicurezza dei sistemi energetici in primis, ma anche nel bilanciamento della produzione crescente ma intermittente di energia rinnovabile, a supporto quindi delle ambizioni di decarbonizzazione dell’Unione Europea e dei suoi Stati Membri. Il Regno Unito stesso è membro del mercato interno dell’energia, dove scambia elettricità e gas con l’UE27 e lo Spazio economico europeo, fungendo poi da paese di transito per gli scambi tra Europa continentale, Irlanda e Norvegia.
Le condizioni della Brexit determineranno per Londra l’accesso alle regole UE sul commercio di energia e sulla protezione ambientale. Se da una parte uno stop allo scambio di energia tra le due sponde della Manica è inverosimile, una Brexit non regolata potrebbe certamente avere implicazioni rilevanti sulla sicurezza energetica, sulla sostenibilità del settore energetico, sui prezzi dell’energia e sulle bollette elettriche dei consumatori. L’UE potrebbe cavarsela meglio perché, nonostante non si sappia ancora chi guiderà la Commissione, a prescindere dalle condizioni del divorzio potrebbe presumibilmente andare avanti sulle priorità tracciate negli ultimi anni, aggiustando il percorso a livello comunitario al netto del Regno Unito. C’è però da considerare che anche all’interno dell’Unione alcuni paesi potrebbero subire effetti più negativi di altri, prima fra tutti l’Irlanda.
Il caso irlandese è sicuramente emblematico dei potenziali effetti della Brexit sul settore. Innanzitutto, l’isola si potrebbe trovare di fronte a un problema di sicurezza energetica (importa gran parte del proprio fabbisogno di gas dalla Gran Bretagna tramite la Scozia) e a prezzi dell’elettricità più volatili. Dublino potrebbe poi vedere diminuiti i suoi ricavi dalle esportazioni di eolico, e d’altra parte l’Europa continentale avrebbe una minore disponibilità di fonti rinnovabili per soddisfare la sua domanda di energia. La soluzione a tutto questo, ironia del destino, è quella di correre ai ripari con ulteriori interconnessioni: per alleviare i timori di una “hard Brexit” i leader d’Irlanda e Francia hanno infatti raggiunto un accordo per la costruzione di un nuovo interconnettore elettrico sottomarino tra i due paesi, il cosiddetto “Celtic Interconnector”, atteso per il 2026 con una portata di 700 MW che sarà quindi capace di tagliare fuori la Gran Bretagna dal commercio energetico tra l’Europa e l’Irlanda rendendo quest’ultima immune ad una possibile Brexit. Il progetto ha già ricevuto finanziamenti dall’UE nonché lo speciale status di “Progetto d’interesse comune” (PCI), e recentemente Macron e Varakdar hanno richiesto 667 milioni di euro all’Agenzia esecutiva per l’innovazione e le reti dell’UE (INEA) per sovvenzionarlo. Altro problema irlandese è quello che riguarda il Single Electricity Market (SEM) tra Dublino e Belfast in vigore dal 2007, che ricopre un ruolo chiave nella sicurezza energetica dell’isola e nel mantenimento di bassi prezzi dell’elettricità. Questo mercato unico irlandese, seppur non messo completamente in discussione da un mancato accordo, andrebbe comunque incontro ad una serie di inevitabili problemi doganali e potrebbe funzionare in maniera inefficiente.
Un interessante aspetto da monitorare è poi certamente quello del mercato europeo degli ETS, che ad aprile ha visto toccare i 27 euro per tonnellata di CO2 emessa. Nel caso di un divorzio senza accordo, il Regno Unito uscirebbe da novembre anche dallo schema ETS, influenzandone i prezzi e rischiando di limitare l’efficacia dell’intero sistema. Il governo inglese riceve milioni di quote ogni anno, messe all'asta a società inquinanti e gestite dal Tesoro britannico per sovvenzionare le politiche climatiche, fondi cui il governo potrebbe dover rinunciare. Il paese, secondo più grande emettitore di gas serra in Europa, sta intanto pensando a soluzioni alternative. Nel caso di un no-deal prevede una propria carbon tax dal valore di circa 16 sterline per tonnellata emessa; in caso di accordo punterebbe invece a restare nell’ETS fino al 2020 per poi definire entro il 2021 un proprio sistema che rispecchi e si ricolleghi allo schema europeo.
Recentemente, il parlamento britannico ha peraltro dichiarato l’emergenza climatica, ma le aziende cominciano a mostrare una certa frustrazione perché incapaci di pianificare a medio e lungo termine quanta parte del bilancio destinare alla riduzione delle proprie emissioni di carbonio. L’incertezza sta poi provocando danni anche su altri fronti. Il settore delle rinnovabili, ad esempio, sembra accusare finanziariamente la situazione politica ed economica del paese e la mancanza di una chiara strategia a lungo termine, e si sta assistendo negli ultimi anni, in parte anche per il taglio di alcuni sussidi esistenti, ad una riduzione degli investimenti e ad un calo del 30% dei posti di lavoro.
La confusione è dunque grande sotto il cielo e il tempo per cercare soluzioni efficaci è davvero poco. Le recenti elezioni europee hanno visto un ottimo risultato del partito dei verdi (pro-UE) sia in Inghilterra che in Irlanda, ma anche un notevole progresso dello Scottish National Party, un risultato importante considerati i piani indipendentisti di Nicola Sturgeon che non manca mai di ricordare i differenti piani scozzesi sulla Brexit. Se da una parte è vero che i parlamentari europei del Regno Unito, con il loro mandato “a scadenza” avranno ben poco margine di manovra per influenzare la politica energetica e climatica europea, è d’altra parte innegabile che molti elettori d’oltremanica hanno chiaramente compreso i benefici che derivano dall’integrazione europea in materia, così come la necessità di affrontare la crisi climatica del continente tutti insieme. Occhi puntati su giugno per comprendere un po’ meglio cosa accadrà. Un mese pieno di appuntamenti interessanti (e speriamo più risolutivi) da una parte e dall’altra della Manica: dalla corsa per definire il leader del partito conservatore (7 giugno), al Consiglio Europeo (20-21 giugno) dove si parlerà di clima e si prenderanno decisioni importanti sulle nomine per il prossimo ciclo istituzionale e sull’agenda strategica 2019-2024 dell’Unione.
* Margherita Bianchi lavora all’Istituto Affari Internazionali (@marghebianchi) Alessandro Valentini è laureando all’Università di Bologna, campus di Forlì (@alevalentini19)