Il tema dell’economia circolare è entrato nel mainstream delle politiche europee. L’idea di fondo su cui è nato l’ambientalismo moderno (ricordiamo solo il titolo del libro-culto di Barry Commoner, “il cerchio da chiudere” del 1971) è diventata uno dei pilastri delle strategie non solo ambientali, ma anche economiche, dell’Unione Europea.

Occorre però una valutazione sobria del cosiddetto pacchetto dell’economia circolare approvato dall’Unione Europea. Al di là delle premesse e delle indicazioni strategiche, infatti, la sostanza normativa dell’economia circolare è essenzialmente confinata alla revisione – durata poco meno di un decennio – delle direttive sui rifiuti e sugli imballaggi.

Siamo dunque solo all’inizio di una transizione da una dominante “economia lineare” ad una nascente “economia circolare”. Questa transizione è attualmente ostacolata da diversi fattori.

In primo luogo, ostacoli di tipo comportamentale – come tendenze dei consumatori verso ricambi molto più veloci della stessa obsolescenza tecnica dei prodotti -  o legati a capacità finanziarie e tecniche limitate: una capacità di investimento limitata può impedire alle imprese di passare da "risorse lineari" a "beni circolari". In secondo luogo, vi sono barriere di mercato: bassi prezzi per i materiali vergini rendono più costoso l'uso di materiali riciclati o la scelta di un design più duraturo. Terzo, vi possono essere ostacoli di tipo normativo o regolatorio, quali ad esempio la definizione del “fine vita” dei rifiuti o della “materia seconda”.

Altri tipi di barriere derivano poi dalla competizione tra usi energetici e usi di materia dei prodotti a fine vita, talvolta determinati anche da incentivi monetari (è il caso della biomassa). Da non trascurare, infine, gli ostacoli di tipo sociale, perché taluni modelli di sharing economy hanno impatti negativi sull’occupazione (ad esempio nel turismo o nella mobilità) e possono tradursi in minori diritti e minori salari per i lavoratori impegnati in questi schemi di economia collaborativa.

Lo sviluppo dell’economia circolare richiede quindi un impegno forte e diretto sia della UE che dei singoli stati. Non può essere solo market-driven. Cinque aspetti ci sembrano centrali.

  1. Sviluppare obiettivi chiari e scadenze per ridurre il consumo materiale nell'economia dell'Unione europea.
  2. Utilizzare la riforma fiscale ambientale come uno strumento chiave nella transizione dell'economia circolare.
  3. Estendere i criteri della progettazione ecocompatibile, che rappresenta una delle misure di maggior successo dell'UE nell'affrontare l'efficienza energetica.
  4. Puntare sull’innovazione tecnologica con un forte investimento nella ricerca e sviluppo su nuovi materiali e tecnologie di riciclo.
  5. Allineare gli obiettivi dell'accordo di Parigi sul clima con le politiche di economia circolare, per non disincentivare il recupero di materia delle sostanze biodegradabili a favore del recupero energetico.

E l’Italia come si posiziona in materia di Economia Circolare?

L’Italia presenta dei “fondamentali” che la collocano tra i paesi leader per economia circolare in Europa. In termini di consumo di materia, il nostro paese è quello che consuma di meno a livello procapite (8,5 ton/ab contro la media UE di 13,6) e uno di quelli che ha conseguito la maggiore riduzione rispetto al 2010 (quindi già dopo il picco della recessione e della crisi economico-finanziaria), pari al -38% rispetto al – 18% della media UE.

Il tasso di circolarità dell’economia (materie seconde usate sul totale consumi) pari al 17,1% è uno dei più alti in Europa ed è fortemente cresciuto dal 2010 in poi (+47%) mentre nella media UE il miglioramento è stato molto più modesto (+6%).

L’Italia è anche il paese europeo che nel 2016 ha conseguito il più alto tasso di riciclo come materia sul totale dei rifiuti prodotti, pari a circa il 79%. 

Anche gli indicatori energetici restano molto favorevoli, segno anche questo della maggiore circolarità dell’economia: i consumi si sono ridotti, segnando  tra il 2010 e il 2016 una diminuzione del 13% (da 177 milioni di Tep di consumo lordo a 155), e più nettamente si sono ridotti i consumi di combustibili fossili, a favore della crescita delle rinnovabili. Fa eccezione il 2017 (dati preliminari dell’European Environment Agency) in cui si segnala un’inversione di tendenza con una crescita dei consumi di energia primaria superiore anche alla crescita delle rinnovabili. Hanno inoltre segnato una buona performance i consumi procapite e l’intensità energertica (PIL per unità di tep). Quest’ultima (dato Eurostat sul 2016) si è attestata a 11.100 € per ogni tep rispetto ai 9.100 € di PIL per tep della media europea.

Infine, in linea con l’andamento dell’Unione Europea, si registra una consistente riduzione delle emissioni di gas climalteranti (-17% nel 2016 rispetto al 1990), anche se con una tendenza alla stabilizzazione del dato e un probabile incremento nel 2017.

Da un punto di vista economico, l’economia circolare è ormai una realtà. Non esiste ancora una convincente e consolidata definizione di economia circolare, ma in una accezione più stretta ricomprende i servizi di gestione dei rifiuti orientati al riciclo, l’industria manifatturiera basata sulle materie seconde, il ciclo idrico basato sul recupero e riuso, i servizi di riuso e manutenzione dei beni. In una accezione più ampia dovremmo forse considerare tutto il comparto delle energie rinnovabili (basate sull’uso di “flussi” piuttosto che di materia) e anche settori produttivi di carattere manutentivo (come parte dell’edilizia).

Facendo riferimento alla definizione più stretta, in un paese come l’Italia queste attività valgono complessivamente 88 miliardi di euro (al 2015) in termini di fatturato e circa 22 miliardi di euro in termini di valore aggiunto e richiedono circa 575.000 occupati.

La dimensione dell’economia circolare in Italia, in termini di valore aggiunto, vale poco meno dell’1,5% del valore aggiunto nazionale. Un valore sostanzialmente equivalente a quello di tutto il settore energetico nazionale o di un settore industriale storico come il tessile e non molto distante dal valore aggiunto dell’agricoltura.

Nell’economia circolare nazionale poco meno del 50% del valore aggiunto e circa il 35% degli occupati è riconducibile più specificamente alla filiera del riciclo, mentre la parte residua è essenzialmente riconducibile alla filiera della manutenzione e riparazione, con quote minori per ciclo idrico e servizi.

Complessivamente, la sostituzione di materia seconda nell’economia italiana comporta un beneficio – un risparmio potenziale – pari a 21 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio e a 58 milioni di tonnellate di CO2. Si tratta di valori pari, rispettivamente, al 12,5 % della domanda interna di energia e al 14,6% delle emissioni climalteranti.

I benefici maggiori derivano dalle lavorazioni siderurgiche e metallurgiche. In particolare, acciaio e alluminio (ormai quasi integralmente basati su rottami) determinano rispettivamente il 58% e il 23% delle minori emissioni di CO2 e il 60% e il 14,6% dei risparmi di consumi energetici. Anche in altri settori (cartario, lavorazione materie plastiche, vetrario etc), in particolare relativamente alle quantità trattate, i risparmi e le minori emissioni sono notevoli.

L’Italia, in cocnlusione, ha tutti i pre-requisiti per essere un paese leader dell’economia circolare. Per traformare le potenzialità in realtà serve però anche un’organica e coerente politica economica e ambientale.