Non solo nutrizione, ma anche mezzo di socializzazione, fonte di appagamento, protagonista simbolico di festività e rituali: il cibo è un elemento imprescindibile della vita umana e, come molti altri, si traduce (soprattutto) in economia. Attorno al cibo ruota infatti la più grande industria del mondo, fatta di produzione, distribuzione e smaltimento degli alimenti e responsabile di circa il 10% del PIL mondiale. L’interrogativo, allora, nasce spontaneo: e se la rivoluzione circolare iniziasse proprio dal cibo?
Prima di passare in rassegna gli effetti di questo auspicabile condizionale, è bene ricordare il presente, tristemente indicativo, della realtà odierna. Attualmente, sono 1,6 i miliardi di tonnellate di cibo che, secondo il rapporto 2018 del Boston Consulting Group, vengono sprecati o gettati ogni anno, per un valore pari a circa 1,2 trilioni di dollari. E il fenomeno è in crescita. Poco contano gli 821 milioni di persone che soffrono la fame in tutto il mondo (dati FAO 2018), o i gas serra derivati dalla catena agro-alimentare, responsabile dell’8% delle emissioni su scala globale: ad oggi, circa un terzo di tutto il cibo prodotto continua a non essere consumato e, molto spesso, non viene nemmeno riutilizzato. Le ragioni dello spreco? Criteri estetici. Almeno per quanto riguarda la filiera ortofrutticola europea. Qui, la perdita di cibo dipende in gran parte dall’applicazione di norme igienico sanitarie e standard cosmetici che l’Unione Europea impone per la commercializzazione di frutta e verdura. A rivelarlo è uno studio dell’Università di Edimburgo, che definisce come parzialmente evitabile l’enorme spreco di ortaggi e frutta che, in Europa, varia tra i 3,7 e 51,5 milioni di tonnellate gettate ogni anno.
Ma il vero paradosso è che l’attuale sistema di produzione risulta inefficace anche se si guarda al cibo che, percorsa tutta la filiera e superati i controlli, finisce sulle nostre tavole. Per ogni dollaro investito in cibo, avverte la Ellen MacArthur Foundation nella sua relazione sul rapporto tra città ed economia circolare, la società paga due dollari di spese sanitarie e ambientali. Questo significa che sia a livello di coltivazione che di consumo qualcosa non va. In primo luogo bisogna imputare i metodi utilizzati per la semina, il raccolto e la distribuzione, oltre che la già citata mancanza di piani regolatori per il riciclo dell’invenduto o dei materiali di scarto. Trattori e camion addetti alla fornitura dei prodotti, infatti, impiegano principalmente fonti non rinnovabili e combustibili fossili; i pesticidi sintetici adoperati in gran parte delle aziende tradizionali sono invece fonte di inquinamento per l’aria, l’acqua e il suolo, risorsa quest’ultima che viene peraltro sfruttata all’eccesso e spesso depauperata in modo irreversibile, con buona pace della biodiversità. Se questo avviene all’inizio del processo, quello che c’è alla fine non è tanto meglio: lo dimostra il recente aumento dei disturbi correlati all’alimentazione, dall’obesità alla malnutrizione, fino a patologie quali il cancro, l’asma o la depressione, spesso correlati anche all’esposizione ai fertilizzanti chimici, all’assunzione inconsapevole di antibiotici, all’inquinamento dell’aria e al trattamento inadeguato di rifiuti animali e alimentari.
Continuare su questa strada è, dunque, altamente rischioso, tanto per gli uomini quanto per il pianeta. L’attuale sistema di produzione, basato sulla relazione lineare e progressiva “take-make-dispose” (prendi, produci, smaltisci), merita pertanto di essere rivisto se non addirittura sostituito da un modello diverso, più strutturato e consapevole, in una parola: circolare. Un modello il cui obiettivo non si limita alla riduzione dello spreco o al riciclo di alcune risorse, ma intende evitare le perdite di cibo e l’inquinamento ambientale, assicurando un uso ciclico e continuativo di prodotti e materiali, rigenerando i sistemi naturali da cui dipende e creando economie nuove. Un circolo virtuoso in cui le città potrebbero giocare un ruolo fondamentale.
Secondo la Ellen MacArthur Foundation, infatti, nel 2050 l’80% del cibo verrà consumato all’interno dei centri cittadini che hanno tutte le potenzialità per diventare punti nevralgici nella geografia dello sviluppo sostenibile e della rivoluzione circolare. Come? Sono tre gli step individuati dalla Fondazione: il primo coincide con la valorizzazione della produzione locale e il sostegno alle tecniche di coltura volte a salvaguardare l’ecosistema territoriale, come l’uso dei fertilizzanti organici e la variazione regolare delle colture. In questo modo si otterrebbe in un sol colpo il miglioramento del sapore del cibo, una più approfondita conoscenza del cibo e dei suoi processi da parte dei consumatori, e la riduzione del packaging di confezionamento. Secondariamente, bisogna modificare l’assetto economico-industriale delle città, che devono smettere di essere semplici destinazioni di cibo per diventare, invece, tappe intermedie della sua lavorazione. È nelle città, infatti, che si può provvedere al recupero e alla trasformazione degli scarti del cibo e dei suoi derivati in materiali di valore, come altro cibo, fertilizzanti per l’agricoltura, nuove materie prime e nuove fonti di bioenergia (basti pensare agli oli esausti impiegati per produrre biodiesel o alle fibre tessili derivate dai residui animali). Infine, non si può prescindere da un cambio di mentalità dei produttori e dei consumatori. Se le abitudini di acquisto sono influenzate grandemente dall’offerta, questa offerta deve allora modificarsi, proponendo sempre più alternative alle proteine animali o introducendo ricette nuove, a base di ingredienti ricavati dagli scarti di cibo; e coinvolgendo la ristorazione nella sua interezza, dalla grande distribuzione organizzata ai rivenditori, dalle aziende di prodotto fino alle scuole.
Il livello di complessità di un simile sistema circolare non è banale. Ma non è nemmeno fantascientifico pensare che, gradualmente e con un approccio strutturato, si possa giungere a una simile realtà. Ne sono esempio alcune esperienze significative dell’India e del Brasile. Grazie alle politiche agricole avviate nei primi anni Duemila, dal 2015 tutte le coltivazioni dello stato indiano del Sikkim sono organiche e costituiscono un unicum nel panorama dell’agro-economia mondiale, tanto che il progetto si è aggiudicato il UN Future Policy Gold Award 2018. Lanciato nel 2012 con il nome di Brasil Agróecologico, il piano nazionale di agroecologia e produzione biologica del Brasile è invece oggi alla sua seconda fase di sviluppo. L’obiettivo è la collaborazione tra le diverse municipalità del paese per l’attuazione di politiche che incoraggino e rafforzino l’agricoltura biologica, secondo un uso sostenibile delle risorse ambientali e nel rispetto delle diverse etnie che vi accedono. Più modeste, ma non per questo meno positive, le iniziative attuate da Stati Uniti ed Europa. Se i primi hanno lanciato nel 2018 il progetto di certificazione pilota “Regenerative Organic Certified” coinvolgendo 80 tra brand e agricoltori, la dichiarazione d’intenti contenuta nel documento “Bioeconomy Strategy” redatto dalla UE nello stesso anno, suggerisce indirizzi politici e azioni concrete per soddisfare l’obiettivo dell’Agenda 2030 di dimezzare gli avanzi di cibo in eccesso, mettendo in campo - è proprio il caso di dirlo - strategie efficaci di economia circolare.
Come ogni rivoluzione che si rispetti, anche quella circolare ha bisogno di un doppio passo per avere effetti duraturi e in grado di modificare davvero lo status quo: è necessario iniziarla oggi, qui e ora, ma con uno sguardo programmatico più a lungo termine, prevedendo le conseguenze e gli ostacoli che inevitabilmente porta con sé. Inoltre, a differenza di altre, altrettanto importanti rivoluzioni, il vantaggio di quella qui descritta è che, in fondo, si basa su un principio piuttosto elementare: “Dopo tutto” - si legge nel rapporto della Fondazione Ellen MacArthur - “il cibo è parte della natura, che è intrinsecamente rigenerativa. Per miliardi di anni, gli organismi viventi si sono sviluppati, hanno prosperato e, alla fine del loro ciclo, sono diventati cibo affinché un nuovo ciclo avesse origine”. Davvero pensiamo di non essere ancora pronti per un cambiamento di questo tipo?