A dispetto dei prematuri necrologi e de profundis, il petrolio è tornato al centro della scena internazionale e lo resterà per molto, condizionando le economie, la geopolitica e le alleanze internazionali (vedi nuovo asse Riad-Mosca), le politiche interne (vedi proteste dei gilet gialli in Francia). La congiuntura 2018 ha visto - lungo una retta ascendente (circa +35% sul 2017) - 4 mini shocks di prezzi: 2 al rialzo e 2 al ribasso. A determinarli, più delle dinamiche reali è stato il gioco delle aspettative con due contrapposti timori, lato offerta e lato domanda.

Sul versante dell’offerta, il timore che il groviglio di tensioni geopolitiche (Iran, Venezuela, Libia, Nigeria) ne generasse un deficit, a fronte di una spare capacity effettivamente disponibile ridottasi a nemmeno l’1% della domanda. Sarebbe bastato un niente per gettare i mercati nel panico. La coperta è corta e l’odore di sangue ha aizzato la speculazione. Da qui, il balzo del 23% dei prezzi del Brent Dated da metà agosto ai primi di ottobre, da 70 a 86 doll/bbl, con allarmi che potessero spingersi oltre i 100. Prospettiva svanita in un batter d’occhio con una loro caduta a fine novembre sotto i 60 (-30%).

A causarla, in primo luogo, l’aspettativa che l’aumento dell’offerta saudita (10,7 mil.bbl/g) e russa (11,4 nuovo record post-Urss), ma soprattutto americana (+2 mil bbl/g rispetto al 2017 a oltre 15 mil.bbl/g) ricreasse condizioni di oversupply. Nel 2008, l’America produceva 150 milioni di barili al mese contro i circa 350 milioni del mese scorso. Un secondo fattore che ha contribuito al ribasso è stato l’aspettativa di una minor domanda indotta dalla decelerazione dell’economia mondiale. Una sua più contenuta crescita - a un nuovo record comunque oltre i 100 mil.bbl/g -avrebbe attenuato i rischi lato offerta, senza però eliminarne la vulnerabilità. Se nei prossimi mesi – in aggiunta al calo di 1,2 mil.bbl/g annunciato nell’ultimo vertice dell’OPEC Plus del 6-7 dicembre – spariranno altri 1,3 mil.bbl/g iraniani e la domanda sarà superiore al previsto i prezzi ne risentiranno al rialzo, sempre con forti oscillazioni.

Morale: la barca dei mercati naviga a vista avvolta da una fittissima nebbia, mentre vi è chi intravvede oltre gli scogli un oil shortage contro cui andrà a infrangersi. A prevederlo è Goldman Sachs che con le sue profezie ha sempre ‘guidato il mercato’. Il ‘tiro alla fune’ tra aspettative lato offerta e lato domanda non fa che consolidare la pesante incertezza che avvolge l’intero mondo dell’energia.

Il fatto positivo è che la più antica industria capitalistica, quella petrolifera, è uscita da una crisi mai vissuta: con breakeven più che dimezzati a 40-60 doll/bbl e livelli di redditività superiori a quelli che si osservavano con prezzi tre volte superiori. Resta, tuttavia, la dolente nota della perdurante depressione degli investimenti. Nonostante un cash-flow delle prime otto imprese petrolifere balzato nel 2017 a 31 miliardi dollari (dopo dividendi per 46) rispetto ai 3,8 registrati nel 2014, le spese in esplorazione – l’offerta di domani – sono ammontate ad appena 35 miliardi di dollari contro i 94 di allora. A deprimerli più ragioni: l’incertezza sul futuro; la rigorosa disciplina finanziaria delle compagnie – si spende quel che si ha in cassa – dopo le dissennate politiche dello scorso decennio (1.080 miliardi di dollari di debiti solo per le imprese E&P americane); la volontà di soddisfare gli azionisti, con alti dividendi e buy-back. In sostanza, schiacciate tra i rischi di mercato nel breve e minacce nel lungo termine delle politiche climatiche, le imprese petrolifere stanno tirando i remi in barca. Dietro la pressione degli azionisti, timorosi della perdita di valore dei loro investimenti, le imprese cancellano o posticipano grandi e costosi progetti privilegiando quelli di minor dimensione e in grado di garantire maggiori e più rapidi ritorni. Accrescere la capacità estrattiva di petrolio di 1 solo mil. bbl/g costa, d’altra parte, intorno ai 20 miliardi di dollari. Se perdurerà l’attuale anemia degli investimenti sarà sempre più difficile sostituire la produzione corrente (100 mil. bbl/g); sopperire al declino naturale (5%-7%) che ha già intaccato l’80% dei giacimenti  (3-5 mil.bbl/g); soddisfare la crescita della domanda che, negli scenari AIE di ultima pubblicazione (ad eccezione di quello Sviluppo Sostenibile) varia da +11 a +26 mil. bbl/g Quel che richiederebbe di coprire un volume che oscilla tra i 114 e i 131 mil.bbl/g (100 +3/5 +11/26).

Considerando l’aumento dei consumi previsto nello Scenario Nuove Politiche (World Energy Outlook 2018), “le risorse di petrolio convenzionale associate ai nuovi progetti sono solo la metà di quanto necessario per bilanciare il mercato fino al 2025. Il tight oil statunitense difficilmente riuscirà a colmare questo vuoto da solo”. Per riuscirvi sarebbe necessario aumentasse di oltre tre volte. Perché quindi, si chiedono azionisti e manager, investire se tra venti o trenta anni vi sarà una minor domanda o altre fonti la soddisferanno? Se in sostanza la famosa ‘transizione energetica’ avrà ultimato il suo percorso? Inquietante interrogativo di cui pochi si preoccupano, convinti che sole, vento, auto elettrica rimpiazzeranno facilmente il petrolio. Un’affermazione falsa più che azzardata. È verosimile, ad esempio, che il sogno della mobilità elettrica sia dietro l’angolo, così da estromettere il petrolio? La risposta è: no! Il petrolio estratto nel mondo è destinato alla mobilità passeggeri per il 25% del suo totale. Se anche al 2030 la penetrazione dell’auto elettrica raggiungesse il 20% dell’intera flotta (ossia centinaia di milioni di vetture) verrebbe spiazzato solo il 5% della domanda di petrolio (25% x 20%), più che controbilanciato dalla crescita di petrolchimica, trasporto pesante, trasporto aereo (che il 30 giugno 2018 ha toccato il record di 202.500 rotte: una ogni mezzo secondo).

Che cosa accadrà allora se l’auspicata transizione non si avvererà nei tempi e modi necessari? Sarà il mercato, via prezzi, a colmare il gap domanda-offerta. E saranno dolori fortissimi per tutti. Al termine del volume “Crude Volatitily” Robert MacNally scrive: “se lo studio della storia del mercato del petrolio insegna qualcosa, è l’umiltà con cui predirne il futuro”, superando superficialità e ignoranza che trasudano dalle profezie dominanti. Pur essendo il petrolio ancora la fonte pivot dell’energia nel mondo l’attenzione è tutta concentrata sul ‘nuovo che avanza’. Nell’ultima (defunta?) SEN 2017 il termine petrolio compariva 20 volte contro le 369 del termine rinnovabili. La possibilità che il nuovo avanzi dipende tuttavia dal petrolio, perché saranno i suoi prezzi ad accelerarlo o ritardarlo, a meno che non sia la mano visibile dello Stato a rendere conveniente ciò che non lo è. A discapito dei consumatori.

La competitività delle rinnovabili, a sua volta, dipenderà dai cicli dei prezzi del petrolio, generati dalle aspettative di un numero infinito di operatori: la mano invisibile del mercato. Sarà il mercato – e non le leggi – a decidere se e quando il petrolio avrà fatto il suo tempo. Illudersi che possa a breve accadere è, appunto, una mera e soprattutto pericolosa illusione.