Sono trascorsi 10 anni dall’inizio della più grave crisi economico-finanziaria dell'ultimo secolo e, forse, sono passati invano. E non solo perché la ripresa è quantitativamente debole e gli effetti sociali della crisi sono ben lontani dall’essere risolti (basti ricordare che il tasso di disoccupazione in Italia alla fine del 2007 era del 6,5%, quello registrato a giugno 2017 è stato dell'11,1%), ma anche perché tutti gli elementi strutturali della finanza privata che ha innescato la crisi sono ancora presenti e forti e nessuna seria regolamentazione pubblica è stata introdotta per evitare il ripetersi di simili eventi. Certo, sono stati introdotte in Europa alcune normative per la gestione delle crisi bancarie, ma tutto nel folle casinò della finanza è rimasto uguale.

Lo dimostra la buona salute di cui godono ancora i paradisi fiscali, come le inchieste giornalistiche recenti ci hanno raccontato. Lo dimostra la resa della Commissione Europea che, poche settimane fa, ha deciso di ritirare la proposta legislativa di riforma del sistema bancario, la Bank Structural Reform, che conteneva una pur blanda separazione fra banche d'investimento e banche commerciali, per l’opposizione degli Stati membri. Separare le attività commerciali da quelle di investimento nelle banche di rilevanza sistemica dovrebbe essere un necessario elemento di una regolamentazione finanziaria più generale per rispondere a rischi sistemici e ridurre le probabilità di un’altra crisi finanziaria.

Nel frattempo la crisi ci lascia in eredità una situazione di maggiore diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Ce lo dice, ad esempio, l’istituto di ricerca di Credit Suisse che nell’autorevole “Rapporto sulla ricchezza globale” spiega che la ricchezza nel mondo si è ulteriormente concentrata. Infatti, all’inizio del millennio, l’1% più ricco della popolazione deteneva il 45,5% della ricchezza totale delle famiglie, ma oggi questa quota è salita al 50,1%. E non diminuiscono i poveri: il numero degli adulti che possiedono meno di 10.000 dollari di ricchezza è diminuito nel decennio meno del 4%. Dati e tendenze confermati dal World Inequality Report, coordinato da alcuni dei maggiori esperti sull’argomento, che ci dice che la diseguaglianza di reddito è cresciuta ovunque nel mondo, ma in alcune aree in modo più intenso che in altre: se in Europa il 10% della popolazione più ricca accumula il 37% della ricchezza, in Cina lo stesso gruppo detiene il 41% della ricchezza, in Russia il 46%, in Brasile e in India il 55% e nel Medio Oriente il 61%.

Dunque, la finanza sistemica a livello globale è ancora parte del problema e niente sembra cambiare. Tranne una cosa, ma importante.

A dieci anni dalla crisi, la realtà della finanza etica, nel mondo e in Europa, si è consolidata rappresentando una reale e consistente alternativa a quella mainstream. Ne abbiamo dato conto nel Primo rapporto sulla finanza etica e sostenibile in Europa, presentato il 28 novembre scorso alla Camera dei Deputati. Dalla prima banca etica europea, la tedesca GLS Bank fondata nel 1984, fino alla ungherese Magnet Bank del 2010, passando per Banca Etica fondata nel 1999, oggi la finanza etica non è più un settore di nicchia, ma vale il 5% del PIL europeo (750 miliardi) e soprattutto rappresenta una risposta concreta ed efficace al bisogno, anzi al diritto di credito di cooperative sociali, piccole imprese, associazioni, individui, soprattutto soggetti che le banche tradizionali considerano non bancabili, ma che alla luce dei fatti risultano ben più affidabili di altri, visto che le sofferenze di Banca Etica sono circa un quarto di quelle medie italiane. Una finanza che funziona; meglio di quella tradizionale.

Abbiamo confrontato i fondamentali di 21 banche etiche europee con le top 15 banche sistemiche – quelle “too big to fail” - del continente. E i numeri parlano a favore delle prime. Mi limito a due dati particolarmente significativi. In primo luogo, i depositi: nel decennio 2006-2016 le banche etiche segnano un +13,06% mentre le sistemiche appena un +3,74%, segno di una fiducia che i risparmiatori assegnano in misura maggiore alle banche etiche e ad una condivisione crescente nei valori che esse esprimono. Infatti, le banche etiche raccolgono risorse (da prestare o da investire) per l’80,9% dai depositi dei clienti, mentre le banche sistemiche appena per il 42,1% perché si avvalgono principalmente di canali come l’emissione di titoli o i depositi da parte di altre banche. Ma è il dato degli impieghi, dei crediti concessi, che è più impressionante: nel 2016 (ma il trend è costante dal 2008) le banche etiche impiegavano - cioè concedevano crediti all'economia reale - il 73,4% degli attivi, mentre le banche tradizionali appena il 38,5%. Queste 21 banche etiche europee hanno concesso crediti nel 2016 per 29,2 miliardi di euro.

Ma allora la domanda (retorica) è: chi è che fa davvero banca? Perché per questo nascono e a questo dovrebbero servire le banche: utilizzare le proprie risorse per alimentare l’economia reale, non per speculare in borsa e rischiare i risparmi dei clienti con il miraggio di alti ritorni. La finanza etica risponde a questa missione istituzionale e lo fa garantendo maggiormente i risparmi dei cittadini. Perché? Perché, con i criteri di trasparenza degli utilizzi e partecipazione dei soci, attraverso criteri di esclusione (non possiamo finanziare i settori delle armi, del gioco d'azzardo, del petrolio e carbone, del tabacco, ecc.) e con una valutazione dell’impatto sociale e ambientale dei soggetti cui concediamo credito, la finanza etica dialoga con i risparmiatori e li rende consapevoli e partecipi di dove impieghiamo i loro risparmi. Cresce il numero dei cittadini che vogliono sapere che fine fanno i loro risparmi quando li depositano in banca e desiderano che questi sostengano un’economia socialmente e ambientalmente sostenibile. Sempre più cittadini cercano di dare un senso, una utilità sociale, un significato ai propri soldi.

Così, anche, si spiega la crescita significativa degli Investimenti Socialmente Responsabili (Socially Responsible Investing, SRI). Lo studio Eurosif, discusso nel nostro Rapporto sulla Finanza etica e sostenibile in Europa, ha stimato - secondo un criterio che evita la sovrastima dovuto alle sovrapposizioni di diverse strategie SRI - che il loro valore complessivo in Europa ammontava nel 2016 a 11.045 miliardi di euro contro i 9.885 miliardi del 2014. Lo studio è condotto su fondi in 13 diversi mercati continentali, nei quali la Francia incide per oltre ¼ della cifra complessiva (3,1 trilioni di euro di investimenti SRI), seguita dalla Germania (1,8 trilioni) e Gran Bretagna (1,55). L'Italia si colloca al 7° posto con investimenti SRI pari a 616 miliardi di euro. Fra il 2014 e il 2016 gli asset SRI sono cresciuti dell'11,7%. Pur rappresentando l’Europa circa la metà degli investimenti SRI mondiali, è impressionante il ritmo di crescita di quelli giapponesi (+6.689%), australiani e neozelandesi (+247,5%) e canadesi (+49%). Un andamento che testimonia la domanda di consapevolezza e coerenza nell’impiego dei soldi, pubblici o privati, con i valori o gli obiettivi di sostenibilità ed eticità che vengono sempre più spesso proclamati: senza di ciò, rischiamo di scivolare nel marketing o nel washing.

Infatti non è infrequente il caso in cui l'applicazione di un solo criterio discriminante nella scelta di un portafoglio di investimenti (ad esempio le aziende produttrici di armi) porta a dichiarare responsabilifondi che invece includono aziende problematiche dal punto di vista del rispetto dei diritti umani nella filiera produttiva o dell’ambiente. Tanto è vero che se consideriamo soltanto la strategia “Best-in-class” che seleziona le imprese in cui investire in base ad uno stock completo di parametri sociali, ambientali e di governance, i tassi di crescita sono più contenuti (circa 1.000 miliardi, con un tasso di crescita fra il 2014 e il 2016 del 16%, mentre altri criteri parziali fanno segnare stock complessivi ben oltre i 10-15.000 miliardi con tassi di crescita fra il 25 e il 40%). Ma questi sono effettivamente i fondi SRI, che possono a ragione dichiararsi “etici”. Oggi una legge italiana, l’unica in Europa, definisce quali debbano essere le caratteristiche degli operatori di finanza etica: a distanza di un anno dall’approvazione attendiamo ancora i decreti attuativi, ma la legge è comunque importante perché ci dice quali operatori finanziari e bancari possano davvero fregiarsi della dizione “etica”.

La finanza etica è oggi una solida realtà e dimostra che è possibile costruire un'alternativa alla cosa apparentemente più inarrivabile, complessa e immodificabile: la finanza.