La recente sentenza n. 39884/2017 delle sezioni penali della Corte di Cassazione è stata da molti commentata con stupore perché, apparentemente, contiene la lapidaria definizione dell’energia come bene non indispensabile alla vita. Questa presa di posizione da parte della Suprema Corte, però, nasce dalla valutazione di un fatto concreto certamente illecito, ossia l’allaccio abusivo alla rete dell’energia elettrica per l’accensione di numerosi elettrodomestici, per il conseguimento di quelli che la Corte ha considerato semplici «agi e opportunità». Da ciò deriva l’impossibilità di ritenere esistente uno stato di necessità tale da scriminare l’imputata. È proprio tenendo presente la particolarità del caso di specie, che bisogna evitare di generalizzare l’affermazione della Corte ricordata in apertura.

La Direttiva 2009/72/CE, relativa al mercato interno dell’energia elettrica, d’altra parte, è chiara nel prevedere la possibilità per gli Stati membri di istituire obblighi di servizio pubblico per tutelare quel nucleo indefettibile di prestazioni, effettivamente indispensabili per una vita degna, che deve essere fornito anche agli utenti non remunerativi (il c.d. servizio universale). Il punto dolente diviene, dunque, il quantum di servizio da fornire, poiché tutto ciò che non rientra nell’ambito dell’indispensabile non può essere ritenuto un bene da tutelare ad ogni costo. Solo, quindi, nell’ambito di quanto necessario si potrebbe ammettere l’esistenza di un obbligo a carico del fornitore che impedisca a quest’ultimo l’interruzione del servizio nei confronti di clienti non paganti, come di solito avverrebbe secondo il principio inadimplenti non est adimplendum. Difatti, l’imposizione di obblighi di servizio pubblico deve essere effettivamente volta ad evitare contrasti con l’utilità sociale oppure veri e propri danni alla sicurezza, alla libertà, o alla dignità umana (art. 41 Costituzione) e, in ipotesi, a garantire la pienezza del diritto all’abitazione di cui all’art. 47 della Costituzione. Peraltro, ai sensi dell’art. 106 com.2 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), un’eventuale deroga alle regole di concorrenza previste nei trattati europei è accettabile solo al fine di garantire l’adempimento della specifica missione di servizio pubblico affidata al gestore (ossia del servizio universale).

Più in generale, ai Governi competono sempre scelte allocative che, per quanto siano orientate dal principio di efficienza, non possono prescindere dal rispetto del principio di equità. A tale riguardo occorre osservare che l’Unione europea si è impegnata negli ultimi anni con varie norme e documenti a promuovere la lotta alla povertà energetica, ossia l’effettiva attuazione di norme nazionali in grado di assicurare la fornitura del servizio universale ai c.d. consumatori vulnerabili. Tuttavia, le norme europee devolvono agli Stati membri la definizione di cliente vulnerabile, e solo pochi Paesi collegano questo concetto alla difficoltà di sostenere i costi per l’energia, garantendo così concretamente la ratio del servizio universale.

Tra questi ordinamenti, degno di nota è il modello francese: la Loi Grenelle del 2010 (art. 11 com.4) definisce la precarietà energetica come «una situazione in cui è particolarmente difficile per una persona disporre, nel suo alloggio, dell’approvvigionamento energetico necessario a soddisfare i suoi bisogni elementari, a causa dell’inadeguatezza delle sue risorse o delle condizioni abitative»; il Code de l’action sociale et des familles (art. L. 115-3) prevede, inoltre, una tutela ancora più forte laddove dispone che la fornitura di energia, acqua, telefonia e internet non possa essere interrotta se l’utente non è in grado di pagare quanto consumato a causa delle sue difficoltà economiche.

Nell’ordinamento italiano manca un’analoga definizione generale della fuel poverty. La normativa in materia di bonus sociale elettrico e gas, però, delinea in modo simile il concetto di cliente vulnerabile: il D.M. 28/12/2007 e il D.M. 29/12/2016 che lo aggiorna prevedono, infatti, che i consumatori vulnerabili, ossia coloro i quali si trovino in una condizione di disagio economico o di salute, ricevano uno sconto consistente della bolletta (ad oggi del 30%). Il D.M del 2007 aveva, peraltro, il pregio di contenere un richiamo alla ormai abrogata direttiva 2003/54/CE nella parte in cui questa prevedeva che gli Stati membri adottassero misure che «assicurino, in particolare ai  clienti vulnerabili, un'adeguata protezione, comprese misure atte a permettere loro di evitare l'interruzione delle forniture».

Se si pone attenzione alle parole usate dalla Cassazione, tuttavia, si può riconoscere come questa non neghi quanto fin qui osservato. La Corte, infatti, quando afferma che «la mancanza di energia elettrica non comportava nessun pericolo attuale di danno grave alla persona, trattandosi di bene non indispensabile alla vita, nel senso sopra specificato (infatti, l'energia elettrica veniva utilizzata anche per muovere i numerosi elettrodomestici della casa): semmai idoneo a procurare agi e opportunità, che fuoriescono dal concetto di incoercibile necessità» richiama proprio l’idea di una prestazione non necessaria per la vita, che eccede l’ambito del servizio universale. La Corte, pertanto, non contesta affatto la sussistenza di un’indefettibile quota di servizio necessaria al sostentamento ed alla vita dignitosa dei cittadini, ma si limita a reprimere un caso di abuso non giustificato. L’uso forse non sufficientemente avvertito dell’assertiva formula di «bene non indispensabile alla vita» non deve però condurre a dimenticare che la lotta alla povertà energetica è un problema riconosciuto dall’ordinamento e per risolvere il quale ancora non state adottate tutte le misure necessarie. Ma le sezioni penali della Cassazione sono chiamate a risolvere singoli casi concreti in punto di diritto, non a soppesare gli interessi pubblici e privati con decisioni aventi valenza generale.