Il G7 sull’Ambiente si è svolto dopo la decisione di Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima. Si tratta di una decisione che ha portata storica e che, inevitabilmente, ha proiettato un’ombra sinistra sul G7 di Bologna, ridimensionandone la valenza. Con monotona circolarità, la storia si ripete: Trump sta all’accordo di Parigi come George W. Bush sta al Protocollo di Kyoto. Entrambi rifiutano un accordo che la comunità internazionale reputa epocale per la lotta al cambiamento climatico: eccessivo lo sforzo per la maggiore potenza del mondo, iniqua la distribuzione dei tagli. Queste le argomentazioni addotte. Di qui Bush che propone un target espresso in termini di intensità carbonica del PIL, del tutto inidoneo a ridurre i volumi assoluti delle emissioni. Di qui la richiesta di Trump di una rinegoziazione dei tagli. Di qui, il rifugiarsi americano in uno splendido isolamento. E’ esso figlio del caso? No, piuttosto il contrario: sono Bush e Trump figli dell’America, o per lo meno di quella parte che mai è riuscita a ratificare il Protocollo di Kyoto o ad approvare un cap and trade delle emissioni a livello statale. Con esatta periodicità, il pendolo della politica americana sospinge il paese ora verso i tagli delle emissioni ora verso lo scetticismo climatico: Clinton, G.W. Bush, Obama, Trump: 1993-2001-2008-2016: apertura-chiusura-apertura-chiusura.
Il movimento dura 8 anni esatti, due mandati presidenziali. Clinton firma Kyoto, Bush lo nega. Obama firma e ratifica Parigi, Trump lo straccia. In questo mare d’indeterminatezza s’annega la politica climatica americana. Ora riemerge, ora va sotto i flutti dello scetticismo climatico. Intanto il tempo scorre, e qualcosa succede. Da una parte la temperatura sale e i ghiacci si sciolgono, inequivocabilmente, dall’altra si manifestano segnali di decarbonizzazione. Kyoto richiede ai paesi industrializzati un taglio medio delle emissioni del 5,2%, che nel ’97 appare obiettivo proibitivo. La storia dirà che il taglio effettivo è stato pari al 23%, nonostante la ritrosia americana. Certo, la recessione economica mondiale ha dato una mano considerevole, ma è anche vero che la storia energetica del pianeta - spinta dai miglioramenti di efficienza energetica e dall’espansione delle rinnovabili - va verso un’economia a basso contenuto di carbonio.
Il problema che allora si pone è se lo scioglimento dei ghiacci avvenga più o meno rapidamente della decarbonizzazione: è questo il primo nodo critico. Fortunatamente, le politiche in atto vanno nella giusta direzione. Nell’ultimo World Energy Outlook, l’AIE ha affermato che le emissioni associate allo scenario energetico mondiale che incorpora le policy climatiche già avviate - il New Policies Scenario - sarebbero addirittura un filo più basse di quelle implicite nell’accordo di Parigi (34,5 vs 35 mld ton CO2 al 2030). Purtroppo, sempre secondo l’AIE, la COP 21 non porta ai 2°C, ma ai 2,7° C, e dunque lo sforzo richiesto per approdare al cosiddetto scenario 450 - che consentirebbe, probabilmente, di contenere la crescita della temperatura entro i 2°C - è ingente, maggiore di quanto concordato a Parigi. Ecco perché la decisione statunitense fa male al clima, perché essa indebolisce un quadro già precario.
Di quanto la scelta astorica di Trump ritarda il flettersi della curva delle emissioni verso il basso? È questo il secondo nodo critico. Sul piano formale, l’impatto sembrerebbe morbido, visto che i meccanismi dell’Accordo di Parigi richiedono tre anni per uscire dall’accordo. Sul piano sostanziale, l’uscita è già stata avviata con la cancellazione dell’Obama Clean Power Plan e la riaffermazione del ruolo importante del carbone, con il sì all’oleodotto Keystone XL e a nuove trivellazioni nell’Artico, nel Pacifico e nell’Atlantico. Più in generale, la risposta alla domanda posta non è semplice perché nessun algoritmo può venire a capo di tutta l’incertezza insita nelle variabili principali: quanto dura Trump, quali saranno gli effetti imitazione - perché certo occorre molta determinazione e coraggio da parte degli altri Stati per continuare con i tagli delle emissioni quando il principale responsabile storico si ammutina – quanto Trump impatti realmente sullo scenario energetico americano.
La speranza è che la decisione del Presidente Americano di uscire da Parigi non abbia un effetto esiziale sulla lotta al cambiamento climatico. Ciò potrebbe essere vero per una serie di ragioni: perché gli altri paesi – Cina inclusa – hanno preso le distanze, perché la green economy è un’opportunità di business avviata e difficile da fermare, perché gli Stati Uniti non sono solo Trump ma anche la Tesla e il suo fondatore Elon Musk, la California e il mercato del carbonio degli Stati dell’Est. D’altra parte, trattandosi di un paese le cui emissioni di gas serra rappresentano il 18% del totale mondiale - ed essendo lo scenario 450 obiettivo arduo da conseguire - non si può escludere che abbiano ragione quegli studiosi, ad esempio, Sanderson e Knutti (1), che sostengono che l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi potrebbe rendere impossibile l’obiettivo dei 2°C. Non solo, se le serie storiche contano qualcosa, il quadro è ancora più fosco, poiché non è improbabile che il paese di Kennedy e di Martin Luther King partorisca, nel futuro, nuovi Trump e nuovi Bush. Per questo ci sembra corretto dire che la politica climatica mondiale – che è faccenda di decadi – sia comunque sotto la spada di Damocle dell’ondivaga presidenza statunitense.
Questo il contesto nel quale il G7 Ambiente di Bologna si è svolto. Si tratta di uno dei meeting ministeriali che avvengono sotto la Presidenza italiana del G7. A marzo, ad esempio, vi era stato il G7 tra i Ministri della cultura, a Firenze, mentre ad aprile Roma aveva ospitato il G7 tra i Ministri dell’energia. E’ chiaro che essendo questi meeting gerarchicamente subordinati a quello dei primi ministri, l’incontro di Bologna non poteva non risentire negativamente di quanto accaduto a Taormina: la limitata presenza del direttore dell’EPA USA, Scott Pruitt, al G7 Ambiente ne è conferma. E infatti, se da una parte è vero che i sette paesi sono riusciti a dar vita ad una dichiarazione congiunta, dall’altra è altrettanto vero che il punto 2 della dichiarazione - quello sul climate change - si caratterizza per un asterisco che estrapola gli USA e li separa dall’affermazione che gli altri 6 Stati fanno circa l’irreversibilità del Paris Agreement. Cambiamento climatico a parte, il G7 di Bologna riafferma i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile al 2030 contenuti nell’Agenda delle Nazioni Unite, quali ad esempio lo sradicamento della povertà e della fame, l’accesso all’energia, l’equità distributiva, la pace e la riduzione della violenza, l’utilizzo sostenibile del mare. In particolare, se si volessero enucleare dalle 15 pagine della dichiarazione del G7 Ambiente i punti maggiormente sottolineati dai Ministri dell’ambiente, occorrerebbe soffermarsi sui seguenti cinque aspetti:
- l’economia circolare ed il ruolo delle 3 R (Riduci, Riusa, Ricicla);
- la lotta contro l’inquinamento dei mari, in particolare contro il deflusso in mare delle plastiche (es. buste, sacchetti, ecc.) e delle microplastiche( es. frammenti di pochi millimetri presenti nei cosmetici);
- il ruolo delle MDB (Multilateral Development Banks, ovvero istituzioni finanziarie create da un gruppo di Paesi: es. World Bank, European Investment Bank, Asian Development Bank) nel finanziamento della transizione verso l’economia low carbon e gli obiettivi di sviluppo sostenibile;
- la riforma fiscale e l’eliminazione dei sussidi incoerenti con la sostenibilità, quali ad esempio quelli alle fonti fossili;
- la possibilità di politiche ambientali che coniughino crescita economica ed occupazione.
Nella tradizione secolare delle dichiarazioni politiche, il comunicato del G7 Ambiente si caratterizza per il prevalere della parola sul numero. Di più, il numero è assente. E se è vero che le parole proferite sono apprezzabili è altrettanto vero che dietro di esse vi siano, invisibili, dei numeri. Il numero misura, per così dire, il peso specifico della parola, il suo stato solido o gassoso. Ragioni di spazio impediscono un’analisi di dettaglio del documento. Qui, come semplice dato sintetico, citiamo il World Investment Report che l’UNCTAD ha dedicato ai Sustainable Development Goals nel 2014 (2). Secondo questo studio, il conseguimento dei Sustainable Development Goals - riaffermati a Bologna - richiederebbe un investimento annuo di circa 3,9 trilioni di dollari (circa il 5% del Pil mondiale) mentre, attualmente, l’investimento fatto è di circa 1,5 trilioni, cioè poco più di un terzo di quanto necessario. Dunque, la distanza è assai ampia. Il policy maker fa bene a riaffermare la validità di obiettivi di sviluppo nobili e condivisibili, ma chi commenta non può non sottolineare che la sua parola ha un basso peso specifico e che l’obiettivo è al di là da venire.
Note
(1) Benjamin M. Sanderson& Reto Knutti 2017, Delays in US mitigation could rule out Paris targets, Nature Climate Change 7, 92–94 (2017).
(2) UNCTAD (2014), World Investment Report 2014: Investing in the SDGs: An Action Plan, United Nations Conference on Trade and Investment, Geneva, http://unctad.org/en/PublicationsLibrary/wir2014_en.pdf
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