Il 25 maggio 2017, la decisione presa dall’Opec allargata di prolungare fino a marzo del prossimo anno il programma di contenimento della produzione di petrolio avrà molto probabilmente successo nell’ottenere l’effetto desiderato: quello cioè di fissare un prezzo minimo del petrolio intorno ai 50 doll./bbl  per i prossimi mesi. Anche se analisti, esperti di mercato e banchieri avrebbero preferito un annuncio ancora più dirompente e tagli produttivi ancora più sostanziosi – e questa aspettativa ha fatto sì che nell’immediatezza dell’annuncio il prezzo del petrolio abbia reagito con un ribasso - in realtà la vera notizia emersa dalla 172esima conferenza ordinaria dell’Opec è la gestazione in fase avanzata di una nuova organizzazione internazionale di produttori di petrolio, molto più forte ed efficace della prima, che conta al suo interno ben 24 paesi, anziché i 13 della vecchia Opec, e che si basa sull’asse Mosca-Riad.

Questa nuova organizzazione ha più opportunità di riuscire a stabilizzare il prezzo del petrolio, grazie all’adesione attiva della Russia, che praticamente è già un paese Opec. Anche se formalmente il Cremlino non fa ancora parte dell’organizzazione, ma è “solo” il paese capofila tra quelli esterni aderenti all’accordo per il contenimento della produzione di petrolio, da come si sono svolti gli eventi il 25 maggio a Vienna è facile intuire che presto la Russia di Putin farà il suo ingresso ufficiale nell’organizzazione, ricoprendo un ruolo di primo piano.

I segnali sono parecchi. Per la prima volta, dal tavolo della presidenza dell’organizzazione di Vienna si è parlato in russo, anziché nella lingua ufficiale dell’Opec, l’inglese. Inoltre, durante la conferenza stampa il ministro dell’energia russo Novak e quello del petrolio saudita al Falih hanno detto espressamente che tutti i paesi aderenti all’accordo del 10 dicembre 2016 stanno lavorando a quello che dovrebbe essere un vero e proprio trattato internazionale, per istituzionalizzare “una cornice di cooperazione che vada aldilà della mera azione congiunta”, ha detto al Falih. Si vuole quindi far nascere una nuova Opec, un organismo internazionale di natura permanente, che al suo interno conti anche tutti i dieci paesi che al momento non fanno ufficialmente parte dell’Opec (Azerbaijan, Berein, Brunei, Kazakhstan, Malesia, Messico, Oman, Russia, Sudan e Sud Sudan). Per finire, a segnalare che il passo tra paesi “simpatizzanti” a membri dell’Opec è molto breve, c’è stato l’annuncio dell’ingresso della Guinea Equatoriale come 14esimo paese dell’Opec. Il piccolo paese africano in dicembre aveva firmato l’accordo per il taglio produttivo come paese non Opec. Sei mesi dopo ha saltato lo steccato.

Certamente, il cammino verso questa nuova Opec non sarà facile, considerando le insidie che le crescenti tensioni internazionali potrebbero sollevare in ogni momento, ma la determinazione finora dimostrata da Arabia Saudita e Russia fa scommettere volentieri sul successo di questa operazione, il cui senso ricorda lo spirito stesso da cui nel 1960 è sorta l’Opec originaria. L’entusiasmo di Russia e Arabia Saudita richiama proprio gli anni d’oro del petrolio, quando a Baghdad, sotto la spinta delle iniziative internazionali di Mattei (è del 1957 il primo accordo con l’Iran dell’Eni), i cinque principali paesi produttori (Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita e Venezuela) si riunirono per ribellarsi contro l’egemonia delle “sette sorelle” che avevano il pieno controllo del prezzo del barile e facevano il bello e il cattivo tempo delle concessioni petrolifere.

Ora i tempi sono sicuramente diversi rispetto a cinquanta anni fa, ma il nocciolo del problema è sempre quello: i paesi produttori vogliono avere potere sui meccanismi di formazione del prezzo del petrolio. Un potere che ora è finito nelle mani della finanza, in primo luogo di quella londinese, dove si fissa il prezzo del Brent, ma anche di Wall Street, la piazza americana dove si forma il prezzo del WTI. La decisione di creare questa Opec allargata va proprio interpretata come una risposta all’egemonia finanziaria di USA e Inghilterra. Una risposta che sicuramente non riuscirà a far cambiare le cose dalla sera alla mattina, smantellando le infinite sovrastrutture che si celano dietro ai circuiti elettronici internazionali, ma che è sicuramente un primo passo, da non sottovalutare.  

Messi alle strette dalla concorrenza del gas e delle rinnovabili, dal rallentamento della domanda petrolifera, che secondo l’AIE quest’anno dovrebbe aumentare solo di 1,3 milioni di barili al giorno (mil. bbl/g), i paesi produttori di petrolio stanno serrando i ranghi, lasciandosi alle spalle ogni altro possibile motivo di divisione, politico o religioso. Se l’Opec sembrava ultimamente un circo mediatico dalle armi sempre spuntate, i numeri dell’Opec plus sono più convincenti. La nuova organizzazione produce in totale 60 mil. bbl/g, di cui oltre 20 mil. provengono esclusivamente da Russia e Arabia Saudita. Niente male se si considera che in totale nel mondo si producono più di 96 mil. bbl/g di greggio.

Al momento, non preoccupa il fatto che restino in disparte gli Stati Uniti, primi produttori mondiali di oro nero, con volumi che sfiorano i 13 mil. bbl/g. È proprio della scorsa settimana la decisione della Casa Bianca di voler vendere la metà delle scorte strategiche di greggio per fare cassa, perché evidentemente costa meno estrarre shale oil che tenere il petrolio nei depositi. La manovra di cessione delle scorte strategiche sul mercato dovrebbe prendere il via in ottobre e consentire di raccogliere risorse per oltre 16 mld. di doll., che probabilmente verranno destinati a settori diversi da quello petrolifero. Pur non aderendo all’Opec Plus, gli USA sono i primi beneficiari di queste manovre a sostegno dei prezzi. Ciononostante, il nuovo asse Mosca-Riad è da tenere sotto stretta osservazione, perché l’appetito vien mangiando e Putin dopo essere entrato nell’Opec potrebbe arrivare persino a proporre la creazione di una borsa del petrolio alternativa. Stabilire il prezzo del barile sarebbe una bella rivincita per il rublo, messo sotto scacco dalle sanzioni petrolifere ed economiche internazionali contro la Russia, successive all’annessione della Crimea.

Sono distanti gli anni in cui il Time dedicò la copertina all’orso russo che stava cercando di mangiare il Medio Oriente.