In una società che sta attraversando una profonda fase di trasformazione, fenomeni come il Nimby sono la punta dell’iceberg di un disagio che investe il tema della rappresentanza.
Per rispondere a questa crisi, alcuni Paesi europei hanno da tempo e progressivamente adottato strategie, pratiche, modalità nuove di dialogo tra i diversi tessuti vitali della società, come dimostrano gli esempi della Danimarca, dove a breve entrerà in funzione il termovalorizzatore Amager Resource Centre sul cui tetto sarà possibile sciare, o ancora il caso nel 2011 delle cittadine svedesi di Oskarshamn e Östhammar che si sono a lungo contese la realizzazione di un deposito di scorie nucleari.
L’Italia, invece, dimostra la sua arretratezza culturale. Nell’incapacità di cercare nuove modalità di dialogo e di confronto, il fenomeno Nimby si è progressivamente inasprito e la distanza tra gli attori coinvolti (impresa, cittadinanza, politica) è radicalmente aumentata. L’apparato burocratico italiano, l’impianto autorizzativo e regolatorio sono farraginosi: duplicano e moltiplicano se stessi, generando un caos incomprensibile in particolare per gli investitori stranieri. Le competenze scientifiche e tecniche dei funzionari delle amministrazioni (in particolare delle piccole amministrazioni locali) sono inadeguate rispetto alla complessità dei progetti.
In questo marasma, fatto di mancanza di competenze, di incertezza burocratica, di lungaggini istituzionali, il ricorso alla magistratura è diventato quasi una prassi abituale per dirimere controversie che troverebbero migliore risposta dall’esame tecnico dei progetti.
Nel nostro paese, le contestazioni riguardano molte tipologie di insediamenti industriali, compresi gli impianti a fonti rinnovabili come le centrali a biomasse o le piattaforme per l’estrazione di idrocarburi.
Il quadro d’assieme dà la misura della paralisi che attraversa tutto il Paese. Una paralisi che le aziende, i lavoratori e le istituzioni non possono più permettersi e su cui è sempre più urgente intervenire non solo con normative regionali appropriate (dopo lo stop al Referendum resta in vigore la Riforma del Titolo V del 2001 che aveva ampliato le competenze delle Regioni su materie come infrastrutture ed energia), ma anche investendo su nuove strategie di comunicazione per contrastare la cultura anti-industriale che permea il racconto di una parte significativa del sistema mediatico italiano.
Il successo del No è stato favorito anche dalla inadeguatezza delle aziende nel comunicare e nel fare storytelling. Per troppi anni il sistema delle organizzazioni di categoria (in primis Confindustria) e le aziende interessate (alcune delle quali sono multinazionali) hanno scelto erroneamente il silenzio.
Sulla capacità di rinnovare la narrazione e la comunicazione del lavoro, anche in un’ottica di Industria 4.0, si giocherà invece la grande sfida del prossimo futuro.
Il mondo dell’industria energetica sembra averlo finalmente capito, come testimoniano le azioni messe in campo da Eni, che ha risposto colpo su colpo alle accuse della trasmissione Report utilizzando Twitter come piattaforma principale di discussione alternativa alla televisione.
Era già accaduto un anno e mezzo fa con l’ashtag #EnivsReport, trendtopic per un giorno intero, entrato di diritto nei libri di studio come espressione di una delle strategie di comunicazione più interessanti, costruite per contrastare le affermazioni della trasmissione sulle tangenti pagate in Nigeria.
Lo scontro sui social si è ripetuto anche nelle scorse settimane, con la produzione da parte di Eni di ulteriori documenti e il chiarimento in diretta Facebook - durante la trasmissione televisiva - del direttore della Comunicazione Marco Bardazzi circa la posizione dell’azienda in merito alla trattativa per l’acquisizione del blocco petrolifero OPL 245 in Nigeria, attualmente al centro di una vicenda giudiziaria.
Se negli ultimi quindici anni l’anticultura di impresa, che è alla base del Nimby, ha prevalso anche per colpa degli imprenditori, poco abili nel comunicare e interpretare il cambiamento nelle relazioni con i territori, l’esempio di Eni costituisce un punto di partenza significativo per superare le resistenze del No sotto il profilo culturale e della organizzazione aziendale.