Qualunque documento programmatico che miri ad avere valore strategico, come si sostiene per la Strategia Energetica Nazionale (SEN) che si va elaborando, dovrebbe rispondere ad alcune condizioni.
Primo: fissare obiettivi di lungo termine che il Governo e Parlamento reputino di interesse generale e gli strumenti per conseguirli. Secondo: reggere al mutare delle dinamiche di mercato per loro natura contingenti e temporanee. Terzo: essere impermeabili al variare delle maggioranze politiche. In assenza di queste condizioni ogni strategia perde di credibilità non potendo certo costituire base di riferimento per decisioni d’impresa che necessariamente si proiettano in un arco di tempo di lungo periodo.
Da ciò deriva che nel valutare la nuova SEN assumono importanza sia i contenuti che paiono comparirvi (stando al gran numero di audizioni parlamentari) ma anche quelli che non vi compaiono nel raffronto con quanto programmato nella SEN approvata l’8 marzo 2013 con decreto congiunto del Ministero dello Sviluppo Economico e del Ministero dell’Ambiente. Ebbene quel che più colpisce è la cancellazione di un obiettivo allora ritenuto fondamentale e strategico: lo “sviluppo di risorse energetiche e minerarie nazionali” che avrebbe consentito di aumentare la produzione nazionale di idrocarburi da 12 mil.tep a circa 23 mil. tep nel 2020 e il loro contributo al fabbisogno energetico dal 7% al 14%.
In piena continuità, il Governo Renzi avrebbe fatto proprie queste linee programmatiche nella legge ‘Sblocca Italia’ del novembre 2014 che riconosceva “l’interesse strategico e il carattere d’urgenza dell’attività upstream” (1). Fu in reazione a questa legge, vale ricordare, che si avviò il gran ambaradan della minaccia di una decina di Regioni di sei quesiti referendari, poi ridotti a uno, su cui si è votato il 17 aprile dello scorso anno. Se sul piano dei risultati numerici e del valore giuridico il referendum ha segnato una netta sconfitta dei fautori del SÌ (per il mancato raggiungimento del quorum con una percentuale di votanti fermatasi al 31,2%) altro è il risultato politico che ne è seguito.
Nel commentarne i risultati posi su “Energia” tre interrogativi. “Primo: il Governo riprenderà la linea di sostegno all’industria petrolifera a beneficio dell’economia, degli investimenti, dell’occupazione, della sicurezza energetica? Secondo: tutelerà i diritti delle imprese a proseguire la loro attività “per la durata di vita utile del giacimento nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale” come affermato nel respinto quesito referendario? Terzo: oppure non finirà piuttosto per tener conto dei circa 13 milioni di elettori favorevoli al referendum rendendo ancor più difficoltosa la vita alle imprese?”.
Ebbene, se la nuova SEN dovesse cassare ogni riferimento all’obiettivo di aumento della produzione di idrocarburi e alla ripresa delle loro attività esplorative e di sviluppo, l’esito del referendum sarebbe ancora una volta capovolto: dando ragione ai suoi sostenitori dopo il danno patito della cancellazione di 10 miliardi di euro di investimenti dei 15 programmati da imprese nazionali ed estere. Se così dovesse accadere, sarebbe questa la maggior e insieme peggior novità della nuova SEN che temo si riduca in larga parte a definire altre attività o progetti come “strategici” al fine di addossarne i costi sulla collettività.
(1) La Legge introduceva in particolare ‘poteri sostitutivi’ del Governo in caso di mancata intesa con le Regioni, eliminava il divieto dei nuovi progetti entro le 12 miglia marine, adottava la ‘concessione unica’ per snellire le pratiche burocratiche, introduceva la ‘pianificazione strategica ambientale’.