Il 2016 sta per concludersi con quotazioni del Brent Dated – benchmark di riferimento internazionale per il greggio – più che doppie rispetto a quelle con cui era iniziato. Nei primi 20 giorni di dicembre, i prezzi si sono sempre mantenuti al di sopra dei 50 doll./bbl, una soglia raramente e solo temporaneamente superata nel corso dell’anno che, come in molti ricorderanno, si era avviato con una caduta a 26 doll./bbl, il livello più basso dal 2004. In mezzo a questi due estremi, fasi di rialzi si sono alternate a momenti di maggior cautela a seconda del prevalere di un mood più o meno ottimista sui tempi di riassorbimento di quell’eccesso di offerta che si era palesato a metà 2014 e che aveva decretato l’addio ai prezzi a tre cifre.
Le ipotesi sul riequilibrio domanda/offerta sono state, in sostanza, la pedina che ha mosso lo scacchiere dei prezzi, riflettendo di volta in volta quel groviglio di variabili ed incognite che incidono su questo mercato e ne complicano la lettura. Tra movimenti della finanza speculativa, congetture sulla tenuta dell’economia cinese, revisioni al ribasso del PIL mondiale, Brexit, tagli degli investimenti upstream, resilienza della produzione statunitense di shale oil e accordi tra paesi produttori – prima falliti poi centrati – il 2016 si chiuderà attorno ad un prezzo medio di 45 doll./bbl, che di fatto riflette la fascia prevalente entro cui si sono mosse le quotazioni per gran parte dell’anno. Estremi esclusi per l’appunto.
Gli oltre 50 dollari su cui il greggio veleggia da ormai tre settimane sono di fatto principalmente ascrivibili alle importanti novità succedutesi in casa OPEC nell’ultimo trimestre dell’anno e tali da rappresentare un netto punto di rottura rispetto alla strategia perseguita dal cartello a partire da fine 2014. Il vento del cambiamento ha iniziato a soffiare lo scorso 28 settembre quando, dopo diversi tentativi non riusciti ed in occasione del 170° vertice OPEC convocato in via straordinaria ad Algeri, il cartello dei paesi esportatori di petrolio ha sorpreso tutti, raggiungendo un accordo preliminare in cui proponeva una riduzione del suo livello produttivo. Un’intesa conseguita dopo cinque ore di riunioni, numerose negoziazioni bilaterali e infinite speculazioni mediatiche e culminata con la dichiarazione di voler portare avanti un serio e costruttivo dialogo con i paesi non-OPEC con l’obiettivo di stabilizzare il mercato e ripristinare un duraturo stato di equilibrio. In sostanza, una dichiarazione decisamente diversa nei termini da quella del famigerato 27 novembre 2014 quando l’OPEC – o meglio l’Arabia Saudita – decretò l’avvio di una strategia di difesa delle quote produttive, lasciando che fossero le libere forze di mercato a definire il prezzo e abbandonando il suo storico ruolo di stabilizzatore.
Fig. 1 – Andamento del Brent Dated nel 2016
Fonte: Elaborazione Rie su dati Platts
Dopo Algeri, tuttavia, erano ancora in molti a dubitare dell’ufficializzazione dell’intesa annunciata, quel che invece è puntualmente avvenuto durante il vertice di Vienna del 30 novembre scorso, quando sono stati resi noti anche i principali dettagli dell’accordo. In particolare:
- È stato concordato un taglio complessivo di circa 1,2 mil. bbl/g dei livelli produttivi OPEC, definendo un tetto cumulato di 32,5 mil. bbl/g.
- La riduzione sarà effettiva dal 1° gennaio 2017 per un periodo iniziale di sei mesi ma potrà essere prolungata per un altro semestre, aspetto da valutare nel corso della prossima Conferenza OPEC che si terrà il 25 maggio 2017.
- Ad ogni paese membro è stata assegnata una quota di produzione calcolata applicando un taglio mediamente prossimo al 4,6% sull’output di ottobre, assunto come riferimento generale.
A sopportare gran parte del taglio saranno i paesi del Golfo: insieme all’Arabia Saudita – chiamata a ridurre il suo output di 486.000 bbl/g – Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar assorbiranno il 65% della riduzione complessiva. Ben più complicata è stata la definizione del calo di 210.000 bbl/g assegnato all’Iraq che apre diversi interrogativi su quali giacimenti ne saranno interessati, essendo la produzione del paese prevalentemente nelle mani di compagnie internazionali.
Decisamente più clementi le scelte compiute su Libia, Nigeria e Iran, con le prime due esentate dalla riduzione in ragione delle forti tensioni interne e l’ultimo sostanzialmente “graziato” per consentirgli qualche margine di manovra nel post-sanzioni. Il tetto concordato per Teheran, infatti, è di 3,8 mil. bbl/g, un livello che supera di circa 90.000 bbl/g quello attuale ma che risulta inferiore del 4,5% al record produttivo pre-sanzioni registrato nel 2005 e assunto come riferimento (3,975 mil. bbl/g). E’ indubbio che questa scelta dell’OPEC rappresenti un chiaro segnale di quanto fortemente questo accordo sia stato voluto.
Fig. 2 – Riduzione concordata della produzione OPEC
Fonte: Elaborazioni Rie su dati OPEC
I tagli sono stati decisi in base alla produzione di ottobre (fonti secondarie) per tutti i paesi ad eccezione dell’Angola per la quale è stata considerata quella di settembre.
Note: Si parla di OPEC-13 perché durante la Conferenza del 30 novembre, l’Indonesia ha deciso di uscire dal cartello dopo esservi rientrata a dicembre 2015. Il paese, già importatore netto, non può subire ulteriori tagli alla produzione.
Alla difficoltà di pervenire alla definizione delle quote interne, si sommano le complesse ed intense consultazioni portate avanti con importanti produttori non-OPEC e ritenute cruciali sia nel raggiungimento che nell’implementazione dell’accordo. Ma anche in questo caso gli scettici sono stati delusi e i risultati conseguiti a Vienna sono stati rafforzati dal positivo esito del vertice ministeriale congiunto che si è tenuto lo scorso 10 dicembre sempre nella capitale austriaca. Un vertice di portata storica, il primo dal 2001 di questo tipo, che ha visto riuniti i rappresentanti di oltre la metà della produzione mondiale di greggio1. In quell’occasione, i paesi esterni al cartello hanno annunciato un impegno di riduzione per il I semestre 2017 di 558.000 bbl/g, di cui oltre la metà riguarderà la Russia: un risultato che, ancora una volta, non ha lasciato indifferente il mercato, con i prezzi che hanno nuovamente guadagnato terreno portandosi verso i 54 doll/bbl, il massimo da luglio 2015.
In conclusione, gli accordi raggiunti a Vienna il 30 novembre e il 10 dicembre scorsi potrebbero togliere dal mercato circa 1,8 mil. bbl/g nei primi sei mesi del 2017: 1,2 mil. bbl/g di matrice OPEC e 558.000 bbl/g di provenienza non-OPEC. Un volume che può sembrare contenuto ma che in realtà trasmette un segnale molto forte: l’OPEC è viva e per la prima volta in otto anni, i segni di coesione sembrano prevalere rispetto a quelli di tensione.
La cautela, tuttavia, è d’obbligo perché la buona riuscita dell’accordo dipende, giocoforza, dalla concreta implementazione dei tagli e quindi da almeno tre aspetti:
- La collaborazione effettiva da parte dei paesi non-OPEC. Il cartello non vuole e non è più in grado di incidere sull’offerta mondiale in modo duraturo senza coinvolgimenti esterni; questa “dipendenza” dagli altri produttori può complicare la buona riuscita dell’accordo, specie quando l’interlocutore principale è la Russia che sulla questione dei tagli produttivi ha cambiato più volte bandiera. Il fatto poi che tra i paesi aderenti ve ne siano alcuni (ad es. Messico) interessati da un declino produttivo strutturale inficia in parte la volontarietà – e quindi la credibilità – dell’impegno dichiarato.
- Una stretta aderenza alle quote da parte del cartello, caratteristica che non è mai stata il suo forte. Secondo Goldman Sachs, su 17 tagli annunciati dall’OPEC dal 1982 ad oggi, l’output è stato ridotto solo del 60% rispetto all’impegno effettivamente preso. Tuttavia, l’istituzione di un Comitato ministeriale di alto livello – composto da Kuwait, Algeria, Venezuela, Russia e Oman – incaricato di monitorare l’effettività dei tagli sembra rappresentare un elemento a favore di un rispetto delle quote superiore al passato.
- Un eventuale aumento produttivo da parte di Libia e Nigeria, esentate dai tagli. In questa ipotesi, correlata ad un allentamento dei disordini interni, diminuirebbe il peso – e quindi l’efficacia – del taglio concordato. Peraltro, è proprio di metà dicembre la notizia dell’imminente riavvio dei campi libici di El Sharara e di El Feel; ne potrebbe derivare una crescita della produzione, già raddoppiata da settembre ad oggi nonostante si attesti ancora su livelli dimezzati rispetto a quelli precedenti la Primavera Araba (600.000 bbl/g vs 1,2 mil.).
Sullo sfondo di questo quadro in evoluzione, emerge anche l’incognita shale. La brevità del ciclo di investimento che caratterizza questa industria e la forte crescita di produttività che ha permesso di ridurre drasticamente il breakeven medio, ad oggi prossimo a 50 doll/bbl, fa sì che lo shale USA possa rapidamente ripartire qualora gli accordi tra i paesi produttori dovessero consentire il mantenimento di prezzi in linea con quelli attuali o addirittura sostenerne un aumento. Una simile dinamica, per nulla improbabile, potrebbe vanificare parte dello sforzo di riduzione degli altri produttori fungendo da cap ai prezzi. Tuttavia, come già precisato, siamo in presenza di un mercato complesso dove molto difficilmente si riescono a prendere in considerazione tutte le variabili in gioco. Considerare lo shale statunitense un deterrente a futuri aumenti dei prezzi può quindi risultare semplicistico e parziale perché – tra le altre cose – molto dipende dalle dinamiche della domanda mondiale e dal combinarsi degli effetti sull’offerta provenienti dai tagli degli investimenti (-400 miliardi di dollari in due anni), dal declino naturale dei giacimenti e dalle riduzioni produttive volontarie.
Tra scettici e fiduciosi, rialzisti e ribassisti, quel che ad oggi sembra certo è che l’OPEC e la Russia saranno gli osservati speciali del 2017 ma solo i fatti ci diranno se gli importanti passi compiuti nell’anno che volge al termine si tradurranno in un percorso concreto.
Di certo c’è che l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio ha cambiato rotta. Sarà sufficiente per riportare il mercato in equilibrio o aveva ragione Ali al-Naimi, ex ministro del petrolio saudita, quando solo pochi mesi fa (febbraio 2016) sosteneva: “L’OPEC non è più un cartello e l’era dei tagli alla produzione è finita, per cui è privo di senso sprecare tempo per raggiungere simili accordi”? Ai posteri l’ardua sentenza.
1 Oltre agli stati membri OPEC, hanno partecipato 11 produttori esterni: Azerbaijan, Bahrain, Brunei, Guinea Equatoriale, Kazakhstan, Malesia, Messico, Oman, Russia, Sudan e Sud Sudan.