È «impossibile» vincere la corsa all’intelligenza artificiale senza l’energia nucleare. La dichiarazione è di uno che se ne intende: Jensen Huang, l’amministratore delegato di NVIDIA, la società di semiconduttori a maggiore capitalizzazione al mondo. I processori di NVIDIA sono essenziali per il progresso dell’intelligenza artificiale e le fabbriche che li realizzano – le cosiddette fonderie – hanno bisogno di tanta energia per funzionare. Le parole di Huang sono allora, forse, un avvertimento a Taiwan, il principale centro manifatturiero di microchip al mondo, che l’anno prossimo chiuderà l’ultimo reattore ancora attivo: così facendo, però, l’isola rischia in futuro di avere difficoltà a soddisfare il fabbisogno di elettricità pulita dei chipmakers. Ma il richiamo del capo di NVIDIA è rilevante anche per gli Stati Uniti, dove prossimamente apriranno tante fabbriche di chip – incluse quelle della taiwanese TSMC – e dove hanno sede le grandi compagnie tecnologiche con i loro centri dati.
Spesso “riempiti” proprio di processori NVIDIA, i data center sono le infrastrutture fisiche alla base dell’addestramento e del funzionamento dei software di intelligenza artificiale. Sono parecchio energivori, al punto da essere tra i responsabili principali della crescita della domanda elettrica negli Stati Uniti dopo decenni di stagnazione. Il dipartimento dell’Energia prevede che questi edifici contribuiranno a far aumentare del 15% la domanda netta di elettricità sulla rete nel giro di qualche anno; la cosa difficile – ma necessaria – sarà soddisfare tale richiesta con fonti a zero emissioni, altrimenti non verrà raggiunto l’obiettivo di decarbonizzare il mix elettrico nazionale entro il 2035 e le “Big Tech” mancheranno i target di sostenibilità.
Il problema energetico dei centri dati non sta solo nella quantità di energia da fornirgli, ma nella modalità di somministrazione: l’afflusso di elettricità deve essere costante e continuo, a ogni ora del giorno e della notte, tutti i giorni della settimana. I parchi eolici e fotovoltaici, con la loro generazione variabile, non possono garantirlo; le centrali nucleari sì.
Il recente accordo di compravendita di energia elettrica tra Microsoft e Constellation Energy (835 megawatt di capacità per vent’anni) che dovrebbe portare alla riattivazione del reattore Unit 1 della famigerata centrale di Three Mile Island nel 2028 sembra essere l’inizio di una nuova tendenza negli Stati Uniti. Messe fuori mercato dagli impianti a gas naturale, oggi le centrali nucleari potrebbero infatti ritrovare una dimensione economica grazie ai power purchase agreement con i colossi tecnologici. Oltre a Microsoft, già lo scorso marzo Amazon Web Services aveva acquistato un centro dati in prossimità della centrale nucleare di Susquehanna e firmato un contratto per 960 MW di capacità. Google sta valutando di alimentare i suoi data center con l’energia atomica, ha detto l’amministratore delegato Sundar Pichai. Yann LeCun, chief AI scientist di Meta, ha scritto su X che «i centri dati per l’intelligenza artificiale saranno costruiti accanto a siti di produzione di energia in grado di produrre continuamente elettricità a basso costo e a basse emissioni su scala gigawatt. In pratica, accanto alle centrali nucleari». Così, la società energetica NextEra sta valutando di riaprire la centrale di Duane Arnold (622 MW), chiusa nel 2020 per problemi di costi ma forse tornata profittevole nel nuovo contesto industriale-tecnologico-climatico. I finanziamenti pubblici sono d’aiuto, e infatti l’operatore della centrale di Palisades (800 MW) ha ottenuto dal governo una garanzia sui prestiti per la riattivazione del sito nel 2025.
La riapertura dei reattori può rivelarsi una via più agevole per accedere all’energia atomica senza dover affrontare le spese e i rischi che i nuovi progetti portano con sé. Una volta attive, le centrali nucleari permettono di produrre tanta elettricità pulita a costi bassi, ma la fase di costruzione tende a impiegare più soldi e più tempo del previsto: è il caso, recente, delle unità 3 e 4 della centrale di Vogtle, in Georgia, che hanno accumulato un ritardo di sette anni e sforato il budget per circa 16 miliardi.
Non è scontato, comunque, che i reattori verranno riattivati né che il processo sarà semplice, tra aggiornamento dei componenti, autorizzazioni e ispezioni di sicurezza. Non mancano peraltro i dubbi di carattere generale. Sugli Stati Uniti sta davvero per sorgere l’alba di un rinascimento nucleare? La digitalizzazione e la ripresa della manifattura manterranno in servizio le centrali esistenti o stimoleranno anche la progettazione di nuove?
È presto per dirlo. I crediti fiscali e le garanzie governative sui prestiti ci sono; a fine settembre, poi, quattordici tra le banche più importanti al mondo, tra cui Goldman Sachs, Morgan Stanley e Bank of America, hanno annunciato l’impegno ad aumentare il supporto all’energia atomica. D’altra parte, le utility hanno bisogno della certezza di una domanda a lungo termine. I PPA con le compagnie tecnologiche possono garantirla, benché qualche riserva ci sia già: Amazon, per esempio, non ha contrattualizzato da subito tutta la capacità della centrale di Susquehanna, ma aumenterà gradualmente le forniture nel corso degli anni e potrebbe fermarsi – è stata inserita l’opzione – a 480 MW.
Tra gli scenari aperti da questa convergenza tra intelligenza artificiale ed energia nucleare ce n’è uno dove si immagina l’ingresso di Microsoft o Amazon nel settore della vendita di elettricità: inseguendo l’integrazione verticale, cioè, i colossi tecnologici statunitensi inizieranno a prodursi da sé l’energia e a rivenderla sul mercato. È un’ipotesi affascinante, ma con nessun appiglio. Anzi, stando alle voci raccolte dal Financial Times, le “Big Tech” non paiono disposte a stanziare somme per lo sviluppo e la gestione di reattori, preferendo limitarsi al ruolo di utenti finali.