L’evidenza scientifica non lascia dubbi sull’urgenza di un cambio di paradigma nel modello di sviluppo economico che consenta di contenere l’impatto delle attività antropiche sull’ambiente senza ridurre il benessere raggiunto. La parola chiave in questo quadro è decoupling ambientale, ossia far sì che alla crescita del PIL non corrisponda un aumento dell’impatto sull’ambiente. Ciò è possibile solo agendo contestualmente su tre piani: migliorando l’efficienza nell’uso delle risorse ottenibile riducendo il fabbisogno di materia prima per unità di prodotto; abbattendo (e in prospettiva azzerando) le emissioni di gas serra per unità di prodotto; passando da un utilizzo lineare delle risorse a un utilizzo circolare, cioè, minimizzando il più possibile la produzione di rifiuti da smaltire e il ricorso a risorse vergini attraverso il recupero di risorse già utilizzate.

Questo mutamento di paradigma impone, nell’immediato futuro, vincoli stringenti all’attività delle imprese industriali. Il settore della produzione di energia e la manifattura sono responsabili di oltre il 60% delle emissioni di CO2 nella UE e, se aggiungiamo i trasporti e la logistica, si arriva a oltre l’80%. Ciò significa che alcune delle tecnologie, dei materiali, delle fonti di energia e delle modalità di gestione delle risorse che oggi offrono alle imprese gli elevati e consolidati livelli di performance attuali sono destinati ad essere abbandonati.

Ma il mutamento di paradigma non è solo un vincolo per le imprese. Le imprese hanno la possibilità di creare nuove traiettorie di sviluppo. Non solo nei settori «green» ma anche nei settori tradizionali; possono sviluppare nuove tecnologie che rispondono ai bisogni della collettività; possono riorganizzare i processi produttivi inserendo nuove modalità di gestione delle risorse e nuove tecnologie per la trasformazione delle stesse; possono ripensare i prodotti, in termini di design, di materiali, di tecnologie incorporate. In questo modo, le imprese possono accrescere la componente intangibile dei prodotti venduti, quindi, in ultima analisi, il loro valore.

A cambiare in modo irreversibile sotto la spinta di questo nuovo paradigma di produzione saranno anche le catene globali del valore fino ad oggi incentrate prevalentemente sulla ricerca di guadagni di efficienza derivanti dallo sfruttamento di differenziali nei costi di produzione. In futuro, sempre più, si terrà conto anche dei differenziali di costo in termini ambientali rendendo così espliciti per le imprese una parte di quei costi altrimenti nascosti che sono associati all’attuale distribuzione delle specializzazioni produttive su scala internazionale. Tanto più veloci saranno le imprese a orientarsi verso la sostenibilità ambientale tanto più riusciranno a cogliere le opportunità offerte dai cambiamenti nelle catene del valore.

È chiaro che lo sforzo richiesto alle imprese da questo mutamento è enorme. Ma è cruciale capire qual sia il posizionamento attuale, cioè, in che modo oggi producono le imprese italiane perché in base a questo si può comprendere anche l’entità dello sforzo richiesto al sistema industriale italiano nei prossimi anni.

Per quanto riguarda l’utilizzo di materia prima per unità di prodotto, le imprese italiane hanno un’efficienza doppia rispetto alla media europea che è ben più alta di quella delle altre aree mondiali. Quindi riescono a produrre utilizzando una quantità di materie prime molto inferiore a quella usata mediamente in Europa. Un vantaggio di poco inferiore, le imprese italiane ce l’hanno rispetto alle loro omologhe europee, per quanto riguarda la quantità di energia utilizzata per unità di prodotto.

Le imprese italiane sono poi leader mondiali in tema di circolarità nell’uso delle risorse con una quota di recupero materico dai rifiuti speciali pericolosi e non, di oltre il 72% del totale nel 2021. Se poi guardiamo alle imprese manifatturiere, queste hanno un’impronta carbonica (tonnellate di CO2 equivalente per mille dollari di valore aggiunto manifatturiero) di poco superiore alle omologhe imprese tedesche e danesi che sono leader mondiali. Ciò anche tenendo conto delle emissioni del settore energetico e di quello dei trasporti e della logistica che riforniscono le imprese manifatturiere. E le imprese italiane sono tra le prime dieci al mondo in termini di velocità di riduzione delle emissioni dal 2000 a oggi.

Questa leadership mondiale in termini di impronta carbonica non muta anche tenendo conto del contributo della diversa specializzazione produttiva perché la manifattura italiana non ha delocalizzato le produzioni più inquinanti per concentrarsi su quelle a più basse emissioni di CO2. Insieme a Danimarca, Germania, Svezia e Giappone, è quella che ha le più basse emissioni di CO2.

Quindi, complessivamente, le imprese italiane e quelle manifatturiere, in particolare, già da molto tempo hanno raccolto la sfida della sostenibilità e ne hanno fatto un elemento fondante della loro strategia. Sicuramente hanno influito le regole europee sempre più stringenti, ma questo processo è stato più accelerato, per necessità, poiché l’Italia è storicamente un paese povero di materie prime vergini e con costi dell’energia elevati, più che altrove. Ma questa straordinaria capacità di adattamento è il risultato di una strategia più ampia. Rientra nella strategia di upgrading qualitativo che l’industria italiana porta avanti da circa vent’anni. La sostenibilità ambientale è diventata un ingrediente del «saper fare» italiano.

Le imprese italiane hanno capito, prima delle altre, che la sostenibilità ambientale non è un problema ma una grande opportunità per sfruttare un territorio “povero” di materia e produrre beni che vengono percepiti come diversi dai compratori mondiali rispetto a quelli della stessa categoria prodotti da imprese estere.

I problemi per le imprese italiane connessi alla sostenibilità ambientale, nell’attuale contesto, sono emersi solo da qualche anno con l’accelerazione impressa a livello europeo e con le modalità che questa ha assunto. Non è la sostenibilità ambientale a stravolgere le strategie delle imprese italiane ma il modo ideologico e prescrittivo con cui questa è stata portata avanti a livello europeo.

Per raggiungere la neutralità carbonica andrebbero fissati degli obiettivi quantitativi progressivi (in termini di emissioni, di recupero materico, di utilizzo delle materie prime vergini) in una prospettiva temporale adeguata. Adeguata all’ammontare di investimenti richiesti alle imprese per adattarsi, adeguata a sviluppare, in Europa, le tecnologie necessarie a raggiungere gli obiettivi prefissati. Il tutto lasciando al mercato, cioè alle imprese, il compito di individuare le strategie migliori per raggiungere i sempre più sfidanti obiettivi di avvicinamento alla neutralità carbonica.

In Europa, invece, si è voluto procedere imponendo tecnologie ben precise e tempi stretti, senza prevedere risorse pubbliche e politiche industriali adeguate a supportare il processo. In questo modo, si mette a rischio l’effettivo raggiungimento della neutralità carbonica, la sopravvivenza di parti importanti dell’industria europea e si riduce la competitività delle imprese rispetto a quelle di altre aree del mondo (USA e Cina su tutti) che, oltre a procedere più lentamente sulla strada della neutralità, investono risorse non comparabili con quelle programmate a livello europeo. Il tutto accrescendo la dipendenza tecnologica da paesi geopoliticamente molto distanti dall’Europa (vedi la Cina). Si tratta di temi che avrebbero dovuto essere al centro dell’attuale campagna elettorale europea, la quale, invece, quasi del tutto focalizzata sulla politica nazionale.